Comunità di Banchette
Con don Renato ho condiviso abitazione ed attività dal 1966 al 1970: un anno presso la parrocchia S. Salvatore in Ivrea, tre anni presso la parrocchia di Banchette, dove erano con noi don Giovanni Togliatti e don Antonio Nigra. A Banchette avevamo entrambi lo studio in via Castellamonte.
Poi le nostre vite si sono divise, ma l’amicizia, il colloquio e il dialogo sono sempre continuati, fino al mattino del suo ultimo giorno, quando lo interpellai per programmare incontri in occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II. La sua morte per tutti è stata una sorpresa.
Mi è stato amico e un amico particolare con cui il parlare era sempre un “ricercare”, un discutere problemi e soluzioni. Nell’analisi dei problemi – sempre problemi di frontiera – eravamo per lo più concordi nell’individuare cause ed effetti, dinamiche e sviluppi; circa le eventuali soluzioni a volte eravamo d’accordo, spesso di parere diverso. Ma le divergenze non hanno mai intaccato il rapporto di amicizia.
L’occasione del nostro vivere per quattro anni nella stessa casa fu l’immediato post-Concilio: un tempo di grandi speranze e decisi propositi. Il Concilio Vaticano II aveva attivato, nelle parrocchie, iniziative legate alla nuova visione di Chiesa, una Chiesa di tutti e per tutti e un nuovo modo di essere da cristiani nel mondo contemporaneo.
Se quel tempo fu l’occasione, l’animatore di decisioni e nuovi modi di vivere fu don Gigi Rey, amico di entrambi. Con lui si decise di fare una piccola comunità di sacerdoti che vivessero insieme e insieme condividessero esperienze diverse, perché quel modo di vivere fosse segno della Chiesa-comunione. Durante quell’esperienza conobbi meglio don Renato, il suo mondo interiore e la sua testimonianza sacerdotale.
Don Renato Pipino era ed è stato un uomo di cultura. Allora insegnava al Seminario interdiocesano di Vercelli, dopo aver compiuto gli studi di teologia a Roma. Appassionato di problemi di frontiera, fede-storia e Chiesa-mondo, entrava in essi con mente lucida e penetrante, facendo chiarezza sull’ intreccio delle dinamiche, sulle possibili conseguenze, sui movimenti di pensiero e di possibili azioni, che diventavano poi esperienza vissuta e testimonianza.
Per se stesso cercava la consequenzialità stretta tra convinzioni e vita. La convinzione raggiunta chiedeva di essere vissuta attraverso un’esperienza conseguente. Da studioso qual era, decise di fare il prete operaio, perché quella sembrava a lui, in quel momento, la migliore testimonianza sacerdotale. Ne fui ammirato, come ammirato resto tuttora. Con mentalità sempre aperta, fu disponibile a rivedere sue decisioni, per scegliere altre esperienze, come quella, più duratura, di vivere presso la fraternità carmelitana di Lessolo.
Uomo di cultura e di profonda fede, ci lascia una testimonianza che fa luce. Sono profondamente convinto che gli uomini che vivono in questo mondo sono facilmente distinguibili in uomini-luce, uomini con poca luce e uomini-tenebra. Don Renato ci lascia una testimonianza luminosa, perché ha vissuto pienamente la ricchezza del suo mondo interiore, delle sue doti intellettuali e il suo ricco mondo di affetti. La fede, solo in una ricchezza umana che sempre cresce, vive e comunica.
Lo ricordo così: un uomo-luce.