Il Vangelo nel tempo / itinerari di approfondimento
A 50 anni dal Concilio Vaticano II, proviamo anche noi a fare memoria di quell’evento. E lo facciamo a partire dal recupero della centralità della Parola biblica, nell’ascolto della quale la chiesa cattolica ha compreso la necessità di ripensarsi. Alla luce di quella Parola, al centro non c’è più la chiesa ma Cristo, Luce delle genti; lo stile non è più quello dell’inimicizia ma la condivisione delle gioie e delle speranze, delle le tristezze e delle angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto.
Non vogliamo fare una memoria celebrativa del Concilio. I tempi difficili in cui viviamo non lasciano molto spazio alla retorica passatista: il presente ci ricorda le gravi sfide da affrontare. La crisi in cui ci troviamo non è solo di tipo socio-economico. Essa coinvolge tutte le dimensioni del vissuto umano, manifestandosi come crisi antropologica, da cui non è esente neppure l’esperienza ecclesiale. La memoria del Concilio rende ancora più acuta la percezione della gravità della situazione, funzionando quasi da liquido di contrasto, impietoso nel rilevare le patologie in atto. La chiesa cattolica sta promuovendo a livello istituzionale una forma di cristianesimo, all’insegna di un nuovo clericalismo, di un nuovo costantinismo, di un nuovo tradizionalismo. Chiusa in un bozzolo clericale, sembra aver abbandonato la via dell’ascolto per installarsi nel vicolo cieco di un autoritarismo autoreferenziale. Il tradimento del Concilio, l’abbandono di quel sogno, denunciati da molti credenti (cfr Martini), domandano un recupero critico di quella stagione, tornando ad interrogarsi su “quale cristianesimo”, rimettendosi “in religioso ascolto della Parola di Dio” che annuncia la vita e la salvezza del mondo intero (DV 1).
Dunque, non celebrare ma interrogare ed interrogarsi guardando al Vaticano II come “memoria del futuro”.
Lo facciamo a partire dal nostro specifico (e parziale) osservatorio. Se gli storici ricostruiscono la vicenda conciliare, contestualizzandola; se i teologi evidenziano l’autocoscienza della chiesa maturata nel Concilio; se i pastori si preoccupano di trasmettere gli insegnamenti conciliari ai fedeli; noi, come PO proviamo a rileggere quell’evento alla luce del nostro particolare vissuto, nel quale abbiamo prodotto un radicale ripensamento della forma del ministero e della figura della fede nel mondo contemporaneo.
Partiamo, dunque, dalla Parola. Nel dibattito attuale sul Concilio la questione fondamentale – posta strumentalmente da Ratzinger – sembra essere quella dell’ermeneutica della recezione del Concilio (in discontinuità o in continuità con la tradizione precedente? e Mt 13,52?!). Noi proviamo a porre la questione della recezione di quella Parola biblica che ha indicato la via della riforma ecclesiale e a cui spetta il giudizio ultimo sull’operato dei credenti (At 5,29).
Per entrare nel tema, possiamo partire da alcune icone bibliche che mostrano non solo l’emergere della Parola (Dio parla), ma anche la recezione di questa Parola. La Scrittura attesta (offre, cioè, una testimonianza in forma di testo, di parola scritta che può durare nel tempo) la questione della recezione della Parola quasi ad ogni pagina. Tuttavia, in alcuni punti la riflessione si fa più intensa mettendo in scena le alternative che chi legge è chiamato ad affrontare. Si pensi a 2Re 22-23, dove il re Giosia recepisce positivamente la Parola prima perduta e poi ritrovata, stracciandosi le vesti e obbedendo al dettato della Parola: è la recezione come conversione. La configurazione opposta, quella della recezione negativa, ha per protagonista il figlio di Giosia, Ioiakim, che getta nel fuoco il rotolo consegnato da Geremia (Ger 36).
Tra questi due estremi, la Scrittura attesta altre modalità di ascolto, perlopiù annullamenti della forza della Parola, anche se in forma più soft: il riferimento al Libro permane ma la Parola in esso contenuta viene stravolta fino all’insignificanza. Nel Nuovo testamento troviamo l’esperienza dei Corinzi, la cui recezione della Parola annulla lo scandalo della croce (1Cor 1-2); nell’Apocalisse si parla di una tiepidezza che spegne il fuoco della Parola (Ap 3,16)…
Queste icone introducono il tema della recezione della Parola, ovvero del rapporto tra Parola e storia, dal momento che la recezione avviene nella storia e sta ad indicare il momento in cui la Parola dall’alto plana e si fa carne nelle vicende umane. Il credente partecipa alla costruzione storica a partire dal modo con cui ascolta la Parola. “La Bibbia ci costringe ad uscire da un paradigma di fede assolutamente irreale, nel quale per lo più noi viviamo. A chi domandava a Michelangelo: “come fai queste bellissime statue?” lui rispondeva: “Semplicissimo, io ho lì il blocco di marmo, tiro via il soverchio, quello che non serve, il di più, ed ecco l’opera”. Questa è l’esperienza della fede biblica: la Grazia ci tira via il soverchio. Non è il cammino idealizzato di tante riflessioni. Noi spesso abbiamo la fobia dello scontro con la realtà, con la storia. Dobbiamo abbandonare quel modo spiritualistico di vivere la fede di chi pensa di arrivare subito alla gloria. La fede si misura sulla storia e misurarsi sulla storia è veramente un’esperienza di grande coraggio. Bisogna avere il coraggio di vivere” (R. Vignolo).
Per approfondire la questione, possiamo riprendere alcune icone bibliche, mettendole a confronto con il periodo post-conciliare e con la vicenda dei PO. Consideriamo l’icona di una recezione che attutisce lo scandalo (1Cor): essa esprime bene la denuncia di un uso della Parola non più pietra d’inciampo ma pietra che lastrica quella “via larga” che porta alla perdizione. E qual è l’elemento di scandalo insito nella Parola? Esso è dato dal fatto che la Parola parla del mondo come Dio lo vuole, Il Regno di Dio annunciato da Gesù. Niente meno di questo! E’ una Parola non circoscrivibile nell’ambito cosiddetto religioso. Il testo biblico configura un mondo differente, che mette in discussione il nostro mondo e ne sollecita il cambiamento. Di fatto, però, la Parola riscoperta dal Vaticano II, dopo secoli di esilio, è stata perlopiù recepita nell’orizzonte ristretto della devozione e dell’esperienza ecclesiale, quale parola edificante per l’anima e conferma di quanto proposto dalla chiesa gerarchica. Mentre la pretesa della Parola attestata nella Bibbia è di edificare il mondo. Non che siano mancati tentativi nel cogliere questa portata ampia della Parola: basti pensare alla teologia della Liberazione. Noi abbiamo seguito con attenzione e simpatia quella riflessione, pur non potendoci identificare totalmente con quel percorso (a motivo di una storia differente, passata attraverso il fenomeno della secolarizzazione). Tuttavia, di quella proposta abbiamo colto la portata promettente: quella di fare della Parola un paradigma teologico-politico. Dio ha un progetto che riguarda la polis e non solo l’anima (individuale o ecclesiale). Su questo aspetto, nel corso degli anni, abbiamo tenuto dritta la barra! E non poteva che essere così, dal momento che la vicenda dei p.o. si è interamente svolta al di fuori delle mura del tempio, posta a diretto confronto con la questione dell’ingiustizia sociale. Affermare questo non significa rivendicare una recezione ideale della Parola. La Scrittura domanda ai suoi lettori una lucida autocritica, pena il fraintendimento della stessa. Ma, tra tante contraddizioni ed incoerenze che costellano la nostra esperienza, siamo riusciti a conservare la decisività della storia come orizzonte ultimo dell’ascolto della Parola. E l’abbiamo fatto in anni in cui la chiesa cattolica (per forza di cose, interfaccia del nostro percorso, per quanto ecumenicamente attento) ha avuto paura di questo orizzonte ampio e l’ha ristretto entro i limiti della devozione personale e della centralità ecclesiale.
Il giudizio impietoso potrebbe apparire sommario. Esistono documenti ufficiali che affrontano coraggiosamente il rapporto tra Parola e storia. Limitatamente alla chiesa cattolica italiana, a titolo di esempio, ricordiamo due testi. Il primo, intitolato La Bibbia nella vita della chiesa (1995), è la recezione della CEI del documento prodotto dalla Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993). In esso troviamo affermazioni come le seguenti: “Leggere il testo mossi dalle grandi domande di oggi. Essendo parola del Dio vivente, la sacra Scrittura è sempre contemporanea e attuale ad ogni lettore: lo illumina, lo chiama a conversione, lo conforta. Attraverso la lettera del passato lo Spirito ci aiuta a discernere il senso che egli stesso va donando ai problemi e avvenimenti del nostro tempo, abilitandoci a leggere la Bibbia con la vita e la vita con la Bibbia” (§ 18). Il secondo testo, intitolato Incontro alla Bibbia, è la traduzione fatta dall’Ufficio Catechistico Nazionale delle indicazioni CEI sopra menzionate: “Ogni atto di lettura, d’altra parte – e questo vale non solo per la Bibbia, ma per ogni testo – non è mai neutro. Parte sempre da un certo interesse del lettore (una domanda, un dubbio, un’attesa) e diventa ascolto del testo. Si stabilisce così un rapporto tra il mondo del testo e quello del lettore e il testo diventa significativo, attuale per lui; tocca qualche aspetto della sua esistenza: la relazione con Dio e con gli altri, la vita nelle sue dimensioni fondamentali, l’amore e l’odio, la libertà e la speranza, la vita e la morte, la felicità e la paura… Questa lettura vitale del testo ha il fondamento nella stessa Bibbia, che nasce dal confronto della fede con gli avvenimenti della vita per illuminarli”.
Ma, a fronte di dichiarazioni come queste, effettivamente capaci di tradurre lo spirito del Concilio, la prassi ecclesiastica (il “Concilio reale”!) ha imboccato altre strade. Quasi a legittimare una duplice via: quella suggerita ai fedeli e quella praticata dall’istituzione (Mt 23,1-3!). Per quest’ultima, la Parola è già stata letta e digerita e quanto Dio dice sulla nostra storia si esaurisce ormai nell’insegnamento del magistero: al posto dell’ascolto della Parola e del discernimento evangelico del presente, la centralità è data al Catechismo della Chiesa Cattolica. L’apertura al mondo, poi, ha assunto, di fatto, sempre più i contorni di una relazione strumentale, fino alle più recenti prese di posizione politica vaticane, in cui non solo la preoccupazione è per sé (invece che per il “bene Il Vangelo nel tempo / itinerari di approfondimentocomune”) ma ci si spinge persino a consacrare i personaggi ritenuti più adatti a perseguire gli interessi della chiesa cattolica (quelli che filtrano il moscerino dei cosiddetti valori non negoziabili e fanno ingoiare il cammello dell’ingiustizia: Mt 23,23-28). Anche questa è una recezione della Parola. Dovremo interrogarci su “che tipo di cristianesimo” è stato vissuto dall’istituzione cattolica nel post-Concilio. Come fa G. Miccoli (In difesa della fede. La chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) che individua una svolta nel pontificato di Wojtyla. Costui mette fine al dibattito post-conciliare e impone un centralismo pontificio, facendo dei pronunciamenti magisteriali (anche quelli ordinari) i riferimenti ultimi e indiscutibili. Pronunciamenti che abbracciano ogni aspetto della vita, in nome non dell’evangelo ma di una presunta “legge naturale”, custodita dal magistero papale e tradita nelle società secolarizzate. Per questo motivo, pur continuando a difendere l’autonomia politica, la si mette in discussione, facendo ricorso alla teoria della “potestas indirecta” di bellarminiana memoria: solo la chiesa cattolica è la società perfetta, santa, infallibile e solo a lei spetta di dirigere le coscienze – libere ma da orientare – e di intervenire nelle decisioni degli stati.
I PO hanno imboccato un’altra strada (un altro tipo di cristianesimo), proprio in nome della portata ampia della Parola. Non una nuova cristianità ma la forza dell’evangelo, il quale, del resto, attesta la dura critica profetica di Gesù nei confronti dell’istituzione religiosa, spesso in opposizione ai disegni divini, al punto di soffocare lo Spirito!
Il segno di contraddizione tra diversi tipi di cristianesimo è dato dall’ascolto della Parola nella storia. Il riconoscimento del carattere evangelico dell’esperienza credente è dato dal rimanere “sotto la Parola”, senza la presunzione di possederla e di andare oltre. Su questo criterio sta o cade la fede nel Dio biblico. Da questo punto di vista, ci sentiamo di dire che, nonostante i nostri detrattori abbiano letto la nostra esperienza come un abbandono della Parola biblica, sostituita, a loro giudizio, dalle parole d’ordine del marxismo e della cultura operaista, i p.o. hanno potuto rimanere fedeli alle scelte di condivisione e di lotta contro l’ingiustizia – a fronte del crollo di molti muri! – proprio perché il riferimento decisivo è stato alla Parola della Scrittura e non ad altre parole, pure importanti ma non decisive, né tanto meno alle indicazioni prive di profezia di un magistero preoccupato solo di sé.
Per non cadere nella semplice celebrazione (del Vaticano II o della vicenda dei p.o.), vogliamo fare di questo anniversario un’occasione per approfondire il rapporto tra Parola e storia. Rimboccandoci, certo, le maniche (la storia irredenta continua ad essere storia di ingiustizie e sofferenze e domanda un agire responsabile) ma anche la testa (c’è una riflessione teorica da fare, per capire meglio cosa significhi ascoltare la Parola e la storia, oggi). Come diceva Bonhoeffer: “pregare e operare la giustizia”, ricordando che la preghiera biblica si nutre di ascolto, è un corpo a corpo con Dio e con le vicende storiche, è un modo di leggere “dal basso” e con occhio penetrante il proprio tempo.
I nostri tentativi in questi anni sono stati molteplici e differenziati. Uno, in particolare, merita di essere ripreso: quello che ha provato a leggere il presente a partire dal tema biblico dell’idolatria. Un tema che si presta bene a mettere in evidenza la questione della recezione della Parola. Non a caso, in Es 32, l’idolo parla le stesse parole del Dio dell’esodo, pur rappresentando il tradimento e l’abbandono dell’alleanza esodica. Quale ascolto non tradisce la Parola, impedendo che Dio si confonda con l’idolo?
Ritornare al Vaticano II, letto come “memoria del futuro”, significa pensare una “nuova Pentecoste” per il presente: quale Spirito è in grado di aprire le porte e le orecchie di credenti ricurvi su se stessi e resuscitare la lettera morta delle Scritture, così da renderla Parola viva, oggi? Senza per altro cadere nella trappola di una frettolosa attualizzazione, che spegne troppo in fretta l’ascolto, in nome delle urgenze storiche. Queste ultime, ben evidenti, andranno affrontate, ma con una sapienza che si muove sui lunghi tempi (il non essere più sotto i riflettori, insieme all’età media avanzata dei PO. dovrebbero convincerci di questo!).
Abbiamo iniziato questa riflessione sulla recezione della Parola evocando due icone di segno opposto: Giosia che ritrova la Parola e si converte e suo figlio Ioiakim, che straccia e brucia quella medesima Parola. La storia deuteronomistica mette in scena anche un ultimo re, Ioiakin. A proposito di costui, la narrazione di 2Re non accenna ad un ascolto prestato o rifiutato. Si limita a giustapporre un giudizio negativo sul suo operato (2Re 24,9) alla constatazione di una felice condizione esilica (2Re 25,27-30). Come spiegare tale sopraggiunta grazia? Siamo qui in presenza di un “bianco narrativo” che il prologo di Baruc colmerebbe. Per quest’ultimo, infatti, “la fine relativamente felice di Ieconia è dovuta alla sua conversione in esilio: egli ha ascoltato la lettura del libro (Bar 1, 3) e reagito positivamente digiunando, pregando e piangendo davanti al Signore, assieme agli altri deportati (Bar 1, 5). Egli ha di nuovo permesso l’atto di lettura che suo padre Ioiakim aveva reso impossibile lacerando e bruciando l’antico rotolo degli oracoli geremiani. Il ritratto di Ieconia in Bar 1 colma un buco della storia narrata fin là e spiega il perché della sua scarcerazione: si è arrivati a riabilitarlo e a rispettare la sua preminenza perché aveva fatto penitenza e aveva ricevuto orecchie attente (Bar 1, 3)” (A. Kabasele Mukenge).
La Parola, tornata di nuovo in esilio, dopo la riscoperta conciliare, rimane in attesa di orecchie e cuori capaci di ascolto. La scelta dell’ascolto può riaprire i giochi che sembrano fatti; può far uscire da quel vicolo cieco in cui la chiesa cattolica si è colpevolmente cacciata, a causa delle decisioni unilaterali dei suoi vertici.
L’itinerario di approfondimento che ci si apre davanti è fatto più di domande che di risposte. Si tratta di riproporre alcuni interrogativi fondamentali, che sembrano assenti nell’attualità ecclesiale, tutta preoccupata di rioccupare spazi e di avere un ruolo di potere nelle sedi decisionali. Oltre a quelli sopra esposti, la ricerca potrebbe affrontare le seguenti questioni:
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Come coordinare l’ascolto della Parola e l’ascolto delle vicende storiche? Luci e ombre dei nostri tentativi ed in quello della chiesa cattolica nel post-Concilio.
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Cosa significa essere una chiesa “sotto la Parola”? come ripensare il rapporto tra Scrittura, tradizione e magistero?
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In cosa consiste un ascolto non religioso della Parola?
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Come ripensare le grandi parole della fede, attestate nelle Scritture? Come farlo oggi, dopo un uso distorto plurisecolare?
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Quali sono oggi i “laboratori di ascolto”? Quali le pratiche promettenti di ascolto personale e comunitario della Parola?
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Proviamo a rileggere alcuni snodi importanti per un’interpretazione delle Scritture quale paradigma teologico-politico: carità e/o giustizia; Dio e idoli; azione e ascolto; Kerygma e sua inculturazione; povertà ed efficacia…