Sirio Politi / Scritti del periodo 1975-1986 (3)
Umanità del lavoro artigianale
La Darsena di Viareggio è certamente l’angolo più caratteristico, vivo dello città. Il canale Burlamacco che scende dalle cave di sabbia e dalle paludi del retroterra, è il confine fra la città balneare e il porto. E dire “il porto”, la Darsena, è raccontare di centinaia di barche da pesca, attracco di navi mercantili, panfili, jachts e un’infinità di motoscafi a cullarsi sugli specchi d’acqua come branchi di gabbiani pronti a spiccare il volo. Poi i grossi cantieri navali e intorno officine, aziende artigianali, laboratori di ogni genere a provvedere attrezzature, impianti, arredamenti perché ogni barca che scende in mare dev’essere, come una sposa nel giorno nuziale, agghindata e bellissima, perfetta. All’inizio di una strada, a pochi metri da un grosso cantiere (la strada non per nulla è dedicata ad un poeta, Virgilio, e i poeti, si sa, non separano mai sogni e realtà) c’è un grande portone di lamiera ondulata, scorrevole. È quasi sempre aperto, spesso anche d’inverno quando nel grande capannone, 500 mq, coperto di eternit, si gela letteralmente: altrettanto come ora che è estate si ribolle. All’ingresso, quando è possibile scorgerlo di tra le macchine e i furgoni vari che disinvoltamente parcheggiano lì davanti, è un cartello, tenuto in piedi da un supporto, con sopra le indicazioni dei diversi lavori artigianali che si fanno all’interno. Ferro, rame, impagliatura sedie, ceramica, legatoria libri, cuoio, falegnameria… è chiaro che l’elenco è piuttosto presuntuoso, ma a giustificazione, dipinta sul cartello c’è un’arca di Noè con diversi animali che si affacciano dalle finestre. Difatti la denominazione dell’azienda è A.R.C.A. (Associazione Ricerca Cultura Artigiana).
Si entra liberamente e difatti chi non sa cosa fare e anche chi non trova dove scambiare una parola o un saluto, viene a gironzolare lì dentro. Si entra e forse la prima impressione è di un enorme confusione che, meno che lungo il centro, non si sa nemmeno dove mettere i piedi. Si accatastano cose di ogni genere, non proprio come i magazzini di robivecchi, ma quasi. E perché spesso chi vuol disfarsi di qualche cosa che gli è di troppo e che non usa più, la offre a noi, anche ovviamente per fare un’opera buona.
Ma è poi vero che l’artigiano ricicla sempre tutto. Niente diventa inutile all’occhio esperto perché, guarda caso, capita quel lavoretto in cui un pezzo di ferro di quella ferraglia ammucchiata è indispensabile per risolvere il problema. Anzi spesso da cose che potevano essere gettate, vengono perfino delle idee. Chi lavora con le mani ha sempre l’immaginazione, la fantasia pronta e attenta. Dunque da una grande confusione si tirano fuori, come dice il Vangelo, cose vecchie e cose nuove. E questo è verissimo non soltanto per tutta la produzione che può essere realizzata, ma specialmente per chi lavora, vi vive le proprie giornate di fatica e di passione, ottenendovi motivi di sincerità personale, valori di rapporto umano, il necessario per vivere e l’indispensabile per una coscienza di dignità umana.
Sono entrati in quest’arca di Noè, a cercare salvezza dalle acque del diluvio consumistico, dall’affogamento industriale e più ancora dalla pianificazione disumanizzazione della ragione economica, tipi certamente strani. Anche perché a pensare in maniera non uniformizzata, a tentare di vivere non allineati, livellati ecc. si è sempre ormai giudicati come degli strani, degli assurdi, sognatori. Ormai gli spazi per un’identità personale si vanno terribilmente restringendo e sempre meno è concessa e perdonata una diversità, una originalità.
In tempi come i nostri di tanto decantata libertà democratica vivere fuori dagli steccati o dalle inferriate delle prigioni della cultura dominante, dell’ordine stabilito, della “normalità” imposta, della morale e anche della religione, della politica utilitaristica ecc., il vivere diventa alquanto difficile. A meno che non si abbiano chiarissime le idee, i convincimenti, a tutta prova di resistenza, le scelte, ma specialmente risorse inesauribili di serenità, di profondissima pace. Tanto più che nel progetto è chiarissima, essenziale la volontà di non vivere chiusi nel proprio guscio ovattandolo meglio che sia possibile, ma sulla strada, allo scoperto, a gomito a gomito con tutta la realtà storica, compresa quella più sconcertante, propria di questo nostro tempo. S’impone quindi un confronto che sia pure spiacevolmente spesso diventa uno scontro. È chiaro, nonviolento, ma forse proprio per questo, continuo, tenace, implacabile, come è, non può essere diversamente, l’Amore.
Sognare lavorando
Più o meno mimetizzati, tra le attrezzature e l’affastellamento delle cose, lavorano quattro preti. Una scelta chiara, inequivocabile.
La Fede, ma una Fede religiosa che raccoglie il Mistero di Dio, di Gesù Cristo come una strada lungo la quale camminare nella storia, nella condizione umana. Come accogliere nelle mani una lampada per farsene illuminare ed essere luce, perché c’è tanto buio intorno e spesso le tenebre sono fitte nonostante le luci al neon. Può essere che il lavoro non sia un ministero sacerdotale, un’opera pastorale, rimane però che anche Dio ha “lavorato” alla creazione dell’universo. E Gesù Cristo, fino a trent’anni, risultava figlio di un fabbro – falegname di Nazareth.
In ogni modo guadagnarsi il pane, il necessario per vivere con il lavoro delle proprie mani, la fatica e la fantasia della propria anima, è semplice onestà, donazione vicendevole, scambio vitale, complemento unitario di valori umani. È chiaro che in questa visione può ottenersi nell’umile, povero, amoroso lavoro artigiano, realtà di profondità sacramentali, dove la materia si trasforma in elevatezza di valore umano, per una creatività non soltanto formale, artistico, ma anche religioso, dove il confine fra terra e cielo si confonde e si perde.
Forse è anche qui un ministero sacerdotale, certamente non precisabile a norma del Diritto Canonico, ma per questo non meno santificante del vivere e convivere umano. Quattro preti e insieme a loro obiettori di coscienza (tre attualmente) in servizio civile. A maneggiare attrezzi di lavoro invece del fucile, a imparare un lavoro artigiano piuttosto che a fare la guerra, a lavorare per opere di pace, di fraternità al posto di servire l’assurdità del mondo militare.
Altri amici impegnati nei diversi lavori e insieme gli handicappati.
L’handicap è più o meno un ritardo mentale, ma più ancora una segregazione fino all’emarginazione ne ha fatto poveri esseri (sono ragazzi e ragazze da 20 a 25 anni) destinati ad essere una disgrazia per le loro famiglie, un peso cioè una zavorra per la società.
Il lavoro manuale visibilmente li ha ravvivati, come usciti da un tunnel buio e ora all’aperto della vita dove gli spazi sono alla luce, all’aria aperta. Le mani che lavorano producono ma non soltanto cose visibili, concrete, da ammirare, da vendere e commerciare, producono serenità, espansività, rapporti umani e particolarmente senso di utilità, coscienza di valore personale, di contare realmente qualcosa. Poco, certamente, ma a pensarci bene, cos’è che conta molto nella vita? Forse soltanto quelli – e certamente sono tanti – che si credono di realizzare cose importanti, ma spesso è a seguito di una gonfiatura fatta dagli interessati o dalla società capitalistica perché vi lega i suoi interessi economici.
Loro no, sono felici soltanto di essere insieme a tutti, di essere come tutti. E lo sono nel lavoro, alla mensa operaia, nei rapporti con noi, con la gente che viene nel capannone, per le strade nelle manifestazioni sindacali e politiche, al ristorante dove ogni tanto riusciamo a ritrovarci.
Non è facile spesso tirare avanti ore e ore di lavoro, trovare motivi d’interesse personale, educare ad una coscienza operaia, intuire i momenti difficili, sostenere le depressioni e le stanchezze. Ma non è così anche con le persone cosiddette normali?
Sì, è vero quando suona la sirena, spesso è un grosso sollievo: ma sollevarsi dalla fatica del lavoro è la gioia di chi lavora. E nella nostra azienda, appena le sirene dei cantieri accennano il loro grido, uno dei ragazzi, ormai specializzato nella sirena, sale in cima alla scaletta dove è sistemata la legatoria dei libri, e dopo aver preso nei polmoni una lunga fiatata, suona anche lui, imitando la sirena, alla perfezione, a meno che qualcuno gli dica: clik e allora tronca l’onda del grido e protesto: ma perché mi hai levato la corrente?
L’inevitabile burocratico
La nostra azienda artigiana è una società di fatto. Iscrizione alla Camera di Commercio e all’Artigianato. Amministrazione regolata dalle norme vigenti con tutti gli effetti assicurativi, pensionistici, assistenziali propri di ogni azienda artigianale. Chi lavora con noi deve iscriversi all’artigianato, deve provvedere al pagamento dei contributi, regolare una sua amministrazione, passare all’azienda, per le spese di gestione, il dieci per cento del suo fatturato.
Per gli handicappati (attualmente sono dodici dei quali otto a lavoro protetto e gli altri per una preparazione ad un inserimento nel lavoro) è stato stipulato una convenzione con I’USL dello città.
L’USL provvede all’assicurazione, alla retta della mensa operaia, allo stipendio di una dipendente dell’USL per l’assistenza, tre ore al mattino per una ragazza specializzata in ceramica, un contributo per le spese generali dell’azienda (c’è un forno elettrico per la ceramica).
Il capannone dove lavoriamo è in concessione demaniale all’azienda e viene pagato un affitto allo stato. Lo produzione e la commercializzazione del lavoro prodotto dagli handicappati viene amministrata con amministrazione propria a totale ritorno del gruppo handicappati.
Eccoci qui. Da alcuni giorni i ragazzi sono al mare, a prendersi il sole e sguazzare nell’acqua, fra le onde che frangono sulla battigia. Anche noi, artigiani che si rispettano, alla fine di luglio chiudiamo la baracca e andiamo in ferie.
C’è piuttosto bisogno di allargare l’anima in una distensione libera e riposante: perché a settembre si arriva molto presto e I’A.R.C.A. riprenderà, a Dio piacendo, a navigare, vele al vento, sulle acque di un diluvio che non accenna ad offrire ancoraggi tranquilli e sicuri di pace, di fraternità, di umanità.
(da “Lotta come Amore”, giugno 1985)