Memoria di Tony Melloni (1)


 

La bellezza della Serra da Arràbida e della baia di Portinho, aperta verso l’oceano infinito, solcato un tempo dai navigatori e scopritori portoghesi, era in forte contrasto con la tipologia dell’esilio che aleggiava sulle nostre riflessioni.

All’inizio del nostro cammino di PO ci riferivamo quasi naturalmente all’esperienza dell’esodo degli Ebrei dalla schiavitù dell’Egitto verso la Terra Promessa: terra di libertà, di giustizia, di benessere (dove scorre latte e miele), terra dove si può adorare il vero Dio; infatti ci sentivamo partecipi, nella classe operaia, di un cammino di speranza, anche se di grande fatica verso una società più giusta, liberata dallo sfruttamento e luogo di rivelazione del Regno di Dio annunciato da Gesù.
Ora invece, nei diversi Paesi da cui proveniamo (com’è ormai monotono e univoco il mondo!), constatiamo la stessa situazione di sgomento per la ripresa di uno sfruttamento selvaggio, anche se molto più sofisticato e “ragionevole”: c’è infatti la competitività, la qualità, dobbiamo restare (o entrare) in Europa…; sgomento anche per la crescita della violenza razzista, per la deriva di tanti giovani senza lavoro e senza speranza.
Così Fritz ci parlava della nuova strategia del capitalismo: usare alcuni valori e slogan della classe operaia per legare una parte dei lavoratori alle ragioni dell’impresa (sfruttare tutte le capacità dell’operaio; dare autonomia nell’organizzazione del lavoro a gruppi abolendo la catena di montaggio, creare competitività tra i vari settori della fabbrica, subappalti e catena logistica…) e pian piano escludere gli altri, quelli che non sono in grado di integrarsi.
Così il Collettivo portoghese denunciava che, dopo il periodo di crescita e di relativo benessere dovuto ai Fondi Strutturali della CEE, si ritorna alla disoccupazione, alla precarietà, allo sfruttamento degli immigrati africani, spesso clandestini e assunti in nero, al lavoro dei bambini, alla piaga del ritardo nel pagamento dei salari e alla drastica riduzione del lavoro agricolo e della pesca perché non competitivi.
E ancora Maurice, attraverso le testimonianze dei PO in pensione o prepensionamento, ci poneva il problema delle migliaia di operai della siderurgia che si trovano anzitempo estromessi dagli altiforni, quasi colpevolizzati della crisi del loro settore e incapaci dì gestire tutto il tempo che improvvisamente hanno a disposizione.
Anche i PO di Italia, Francia e Spagna constatavano che il lavoro e i lavoratori stanno diventando una variabile non indispensabile per la produzione. Non sono più soggetti umani, ma costi di produzione.
Ecco perché è emersa da parte di alcuni questa memoria dell’esilio degli Ebrei in Babilonia, tempo di tentazione estrema di perdere la propria cultura, la consistenza di popolo e la fede nel Dio liberatore.
Ci si era chiesti l’anno scorso se era possibile elaborare una teologia della liberazione per l’Europa, ma si è visto che, piuttosto che di liberazione, si deve parlare di “resistenza”, di lotta per sopravvivere, con la speranza di arrivare domani a vivere.
Questa tipologia dell’esilio ha però rivelato anche parecchi aspetti positivi, che sono stati colti sia nella vita dei lavoratori, dei poveri, che nella fedeltà del ministero dei PO, nella vita delle suore e di tanti credenti nel mondo operaio. La realtà più forte che abbiamo colto in Portogallo appena sbarcati dall’aereo è quella di un “bairro” a pochi passi dall’aeroporto, costruito illegalmente su una collinetta da un gruppo di famiglie della Guinea e delle Isole del Capo Verde; è un quartiere privo di acqua, di corrente (in realtà la corrente c’è perché ci si attacca illegalmente ai fili che passano lì vicino), di scarichi igienici. La gente si organizza per resistere ai tentativi di demolizione già attuati in parte con i bulldozer, crea servizi minimi (dà il nome alle vie per poter ricevere la posta, apre un asilo per i bimbi le cui mamme lavorano, crea un comitato per trattare con il Comune…). Tra queste famiglie, e con il loro aiuto, tre Piccole Sorelle di Gesù, anch’esse operaie, hanno costruito due anni fa la loro casetta, facendosi “senza legge” con coloro che sono nell’illegalità: “Siamo entrate nell’illegalità – esse dicono – non per essere uno in più nella miseria, ma per condividere la loro sorte, e così insieme, a poco a poco, fare un cammino di miglioramento e di liberazione… Impariamo da loro a resistere a tali condizioni!”
• Noi PO siamo immigrati in un mondo che non è il nostro: dobbiamo sempre giustificare il passo fatto. Certo, abbiamo lasciato molte cose del nostro vecchio mondo; ma non un certo linguaggio. Ci vuole forse un tempo di silenzio (di esilio) per cambiare linguaggio, unificare il linguaggio perché sia quello della vita.
• Nella difficoltà di creare teologie o linguaggi di evangelizzazione, la condivisione della vita dei nostri compagni, una presenza densa, forte, radicale, fedele, diventa luogo di rivelazione della presenza di Gesù, il Figlio di Dio, un Dio storico, disprezzato, folle, povero, che soffre, ma che non vuole la schiavitù; “ai poveri è promesso il Regno”.
• Nell’esilio si rinsalda il vincolo della fraternità, dell’essere chiesa: ci si riconosce insieme peccatori, ma anche insieme si spera e si prepara il nuovo Esodo.
• Da qualche parte il clero, aggravato da compiti di gestione del sacro, è in cerca di qualcosa d’altro, e guarda all’intuizione dei PO.
• Nella crisi di rappresentatività del sindacato si possono creare il desiderio e lo spazio per una partecipazione nuova, per una auto-organizzazione dei lavoratori.
• Nell’esilio bisogna organizzarsi per resistere a lungo. Se nella fabbrica vengono meno certi spazi, è importante operare anche sul territorio, dove c’è maggiore elasticità e dove pure vi sono fattori di espropriazione: qui rimane lo spazio per la formazione dei militanti, degli intellettuali organici che restano alla base come le stecche di balena per il busto (Gramsci).
Ciò che abbiamo imparato in fabbrica non deve andare perduto, dimenticato, ma valorizzato affinché la cultura e la sapienza operaia non scompaia prima di tutto nell’operaio che diventa cittadino di una società e fedele di una chiesa.
Le piste individuate per un approfondimento e per gli incontri successivi sono queste:
• La formazione dei militanti sul territorio, nel quartiere…
• La cultura operaia è entrata nella cultura dei poveri e l’ha arricchita.
• La cultura operaia è cultura dei poveri.
• Le difficoltà dell’Europa confrontata alle diverse culture.
• La nuova strategia del capitalismo e il nuovo tipo di uomo che nasce da essa.
Terminando questo breve resoconto vorrei ringraziare tutti i membri del collettivo portoghese, suore, religiosi, preti, per la disponibilità di tempo e di servizio, la scelta dei luoghi, la qualità della testimonianza, la cordialità dei rapporti.
E insieme ringraziare la delegazione francese per la proverbiale precisione e chiarezza nel guidare la nostra reciproca comunicazione.

Tony Melloni

Pentecoste 1993 / Incontro dei PO europei
Portinho da Arràbida – Setubal – Portogallo
pubblicato in PRETIOPERAI n. 24-25 / ottobre 1993

(Nei 4 articoli seguenti continua il ricordo di Tony Melloni)


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