Altri tre PO se ne sono andati…


In questi ultimi anni sono diventati più frequenti gli annunci dei nostri compagni che se ne vanno. E ogni volta si addensano nella memoria i momenti vissuti insieme, le narrazioni che condividevamo, la dialettica sempre viva che ci ha accompagnato. Simili, eppure diversi. Nel numero 0 della nostra rivista che ha visto la luce all’inizio del 1987, don Cesare Sommariva così diceva di noi:

«I PO sono persone che hanno dovuto ogni momento da anni lottare contro le diffidenze da ogni parte. Hanno affinato meccanismi di difesa che permette loro di “sopravvivere” e sono ciascuno una galassia a sé. All’inizio erano galassie differenti di cui si temeva lo scontro. Alla fine ci si è riconosciuti come appartenenti alla medesima galassia. Non è un medesimo sistema solare. Infatti non c’è un “sole” attorno a cui tutto ruota. Il bello è stato lo sciogliersi di diffidenze, il riconoscere il diritto di “alterità”, il negare l’unicità della figura del prete operaio, e contemporaneamente riconoscere l’appartenenza a medesimi “spiriti”». Così scriveva dopo il convegno nazionale del 1986 tenuto a Firenze.

Alla luce degli anni trascorsi e con l’arrivo di papa Francesco un grande arco si ricompone. A partire dalla Nuova Pentecoste di papa Giovanni con il Concilio Vaticano II, la nebulosa che noi abbiamo formato ha dato corpo alla “chiesa in uscita” e a una ministerialità che smontava, in noi e nel nostro vissuto, la figura del sacerdote secondo il modello tridentino.

«Nel post-concilio non si è risolta la questione dell’identità dei ministri ordinati, presbiteri e diaconi, radicalmente ripensata nel Vaticano II, dove viene meno l’interpretazione tridentina di tipo sacrale del sacerdote. La categoria del sacerdozio è riferita a Cristo e all’intero popolo di Dio” (Serena Noceti).

L’immersione nella condizione operaia, in questo humus molto concreto nel quale si sono vissute piccole vittorie e grandi sconfitte, in un rapporto paritario con i nostri compagni, sono emerse identità ministeriali diverse, anche tra noi. Ma in tutti c’è stata l’immersione in contesti precisi, in rapporto al territorio di appartenenza. E nel momento in cui un prete operaio lascia questa vita vengono alla luce le compagnie praticate, le tracce lasciate, i volti segnati dal tempo. Emerge la vita vissuta nella quale in un modo o nell’altro la ministerialità ha preso una forma originale, con la caratteristica della semplicità. Anche la nostalgia si fa sentire: davvero, si è vissuto insieme qualcosa di bello.

La generazione del Concilio se ne sta andando nella vita che coincide con quella pienezza che appartiene al segreto di Dio. Pensiamo che i pretioperai siano tra quelli che hanno preso sul serio il Vaticano II. Nell’Europa del XX secolo sono stati una parabola evangelica. Come succede nei testi scritti, le parabole possono avere diverse varianti e redazioni, ma intatta rimane la forza comunicativa. Era necessario che questo avvenisse nelle vicende storiche del capitalismo occidentale e del cristianesimo potente che l’Europa ha conosciuto.

Ricordiamo i volti di:

  • Tony Melloni, il gesuita che ha fatto l’operaio a Parma per molti anni, trasferito poi a Livorno.
  • Toni Revelli, uno dei primi preti operai di Torino.
  • Sandro Artioli di Milano, che ha lavorato come metalmeccanico. Di lui parleremo nel prossimo numero della rivista.

Roberto Fiorini


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