Ricordiamo Gianni Belotti / 2


 

Non posso tralasciare di mettere per iscritto lo strascico di alcune impressioni che mi rodono il cuore dopo i funerali di don Gianni Belotti, celebrati il 24 aprile da mons. Olmi a Corti di Costa Volpino.
Sono stato curato a Corti dal 1970 al ’76, ma solo sporadicamente, dalla madre e dai suoi familiari che lì vivevano, avevo notizie di don Gianni. Della sua esperienza in Africa, quindi posso dire ben poco: solo quello che ho letto e quel poco che trapelava dal suo parlare. L’ho frequentato, invece, per più di vent’anni dopo il suo rientro e la sua scelta di essere prete al lavoro. Ci si trovava due volte al mese, fino a notte inoltrata, in casa di don Piero Verzelletti, prete al lavoro, allora e “patriarca” oggi, con altri amici preti al lavoro e altri ancora, per ragionare e approfondire il senso della scelta di vita del prete, della realtà della chiesa e del mondo. Si scherzava sull’esperienza in Africa di don Gianni dicendo che lui, appassionato cacciatore, ci era andato solo per le antilopi. Coglieva la battuta e rideva!
Erano gli anni in cui don Gianni risiedeva alla Casazza ed era prete al lavoro, in fabbrica. Poi, pensionato, era parroco a Brione. Erano gli anni di una scelta meditata e voluta: essere prete al lavoro con l’intento di testimoniare una scelta importante per la vita della chiesa, ma ignorata da molti, sconfessata da altri, a volte perfino derisa e messa alla gogna. Era solito dire: “quando incontro amici preti in città, mi chiedono come andava in Burundi che ho lasciato da anni, ma nessuno mi chiede della mia vita ora in fabbrica, da operaio: questa scelta non interessa minimamente alla chiesa bresciana”.
Al funerale di don Gianni, ancora una volta, questa scelta della sua vita sacerdotale è stata sottaciuta, e me ne dispiace.
Il nostro discorrere, in quelle lunghe serate aveva come tema il senso della vita del prete in fabbrica. Prima di tutto egli voleva esprimere la distanza da molte scelte, parole e comportamenti della chiesa ufficiale. Il modo di essere e di vivere di quella chiesa paludata, della sua liturgia e paramenti non poteva coinvolgere chi passava un terzo della sua giornata legato a una macchina fino a rischiare di diventare lui stesso macchina.
Ma soprattutto don Gianni era solito prendere atto di qualcosa che era cambiato nella sua visione di fede e nel suo concetto di missione dopo il suo ingresso in fabbrica. Era andato in Burundi per portare Cristo a quella gente e si era accorto che lì Cristo c’era già, nella povertà e miseria di quelle persone. Era andato in fabbrica per annunciare Cristo al mondo operaio, anticlericale e spesso indifferente alla chiesa, e aveva scoperto che proprio nella vita sfruttata e resa banale dal lavoro era presente quel Cristo che egli voleva annunciare. Era solito dire:” noi preti operai siamo andati in fabbrica per convertire gli operai e sono stati loro a convertire noi, facendoci vedere che Cristo era già nella loro vita”.
La missione non era andare ad annunciare verità del catechismo, dei contenuti dogmatici o delle regole morali. La missione era condividere la vita dell’operaio e annunciargli che era nel suo sfruttamento e nella sua lotta per condizioni di vita degne di un uomo che stava il senso più profondo dell’annuncio che Gesù ci aveva portato. La missione era scoprire che le esigenze di giustizia che l’operaio stava perseguendo era già il senso del vangelo: cercare pane e dignità, contribuire a rendere migliore questo mondo con il lavoro, non cercare solo soldi e benessere materiale, ma amicizia umana e solidarietà, voler dare un futuro ai tuoi figli, esigere un tempo di vita libero dal lavoro per dedicarlo alla riflessione sul senso della vita e alla bellezza del vivere: ecco tutto questo stava già in fabbrica. Il prete che si fa operaio era per dire al fratello operaio che nella sua stessa vita c’era da scoprire una realtà che già c’era e che andava portata a galla.
La gestualità di quella liturgia ufficiale espressa nei sacramenti era già contenuta nella condivisione della vita alla catena di montaggio, nell’ora di sciopero condiviso per una fabbrica a misura di uomo e non di macchina, per un riconoscimento di quei bisogni umani che spesso sono sacrificati alla produzione e al guadagno di chi è padrone in fabbrica.
Questo don Gianni è andato a dire e a fare in fabbrica: perché i gesti dei sacramenti fossero segni efficaci, dovevano prima essere condivisi nei segni di liberazione, di compartecipazione e di condivisione di vita e di ideali.
C’è un testo, scritto e pubblicato il 6 ottobre 1988 sulla rivista “Pretioperai” in cui don Gianni si confronta con la sua realtà di operaio e di credente. Mi sembra importante rileggerlo.


 

Ritmi, mele, carta igienica e rabbia

Lavorare in catena in una media azienda
Io lavoro in catena da 11 anni.
In una fabbrica di 70 dipendenti.
I vecchi mi dicevano che “alla catena ci si abitua”.
lo non mi ci sono ancora abituato.
La catena non ha niente di umano.
La si può solo subire. Non ci si può mai abituare.
Certo, si preferisce non parlarne.
Non ne parlano tra loro coloro che la subiscono.
Non se ne parla fuori.
E’ come una brutta malattia che è convenzione sociale tacere.
Perché, tanto, non c’è rimedio. Chi ce l’ha se la deve tenere.
Sulla mia catena siamo dai 2 ai 4 addetti, secondo le lavorazioni. Montiamo delle valvole per condutture di gas o per usi enologici.
Sul blocco si avvita il premi-maschio e il controdado, si regolano e si aggiunge il cappuccio o la farfalla.
A me tocca stare con due chiavi in mano e nel mezzo metro in cui mi scorre davanti il pezzo, devo stringere il premi-maschio, il controdado e verificare che il perno non risulti bloccato. Se stringo troppo, il pezzo esce di produzione.
Il padrone vuole 400 pezzi all’ora. Esatti.
Perché se il blocco oppure dadi, cappucci e farfalle sono difettosi, lo sforzo viene quadruplicato, ma la produzione viene ugualmente esigita.
Non ce la facevamo più… addirittura ci siamo accorti che ci nascondevano il numero reale dei pezzi eseguiti proibendoci anche di controllarli.
E dietro alle spalle c’era il capo che continuava ad incitarci a muoverci.
Per andare ai servizi lo si chiedeva al capo, che veniva quando voleva lui: e non più di una volta al mattino e una al pomeriggio.
Ho visto uomini di 50 anni piangere. Con alcuni sono riuscito ad avanzare delle richieste per capire il perché di ritmi così insopportabili. Ci è arrivata una lettera che ci rimproverava di essere “scarsamente produttivi” e quindi “di danno all’azienda”.
Si sparse il terrore. Non ci rimase che il ricorso alle vie legali. Ricordo che il pretore stupito ci disse: “. . . ma io credevo 400 pezzi al giorno”. Abbiamo ottenuto il “Jolly” e il contatore numerico sulla catena.
Abbiamo avuto anche noi le “innovazioni tecnologiche”: la vecchia catena rimane sempre, però ad essa ne hanno aggiunta una semi-automatica. I pezzi, invece di scorrere, girano su una piastra circolare. La macchina svolge quasi tutte le operazioni, però alla regolazione è rimasto l’uomo. Tre postazioni di lavoro sono saltate: a quello rimasto adesso chiedono… 800 pezzi all’ora.
Tra una avvitata e l’altra avevo imparato, un boccone alla volta, a mangiarmi una mela.
Era proibito. E mi fu detto.
Risposi che lo esigeva la mia salute.
“Se è questione di salute, occorre il certificato medico!”
Ho chiesto di uscire perché avevo urgente bisogno di recarmi dal mio medico. Sono tornato con un certificato che mi autorizzava a mangiare 10 mele al giorno. Adesso giace nel mio dossier di sovversivo. L’ultima nostra vittoria fu quella di avere dopo tanti anni di insistenza …la carta igienica nei cessi.
Abbiamo dovuto dimostrare al padrone, con due mesi di prova, che “avremmo saputo usarla bene” e che “nessuno l’avrebbe rubata”.
Quando esci dal lavoro, hai il cervello ritmato dalla catena.
Te la sogni anche di notte.
Le mani ripetono per conto loro l’operazione fatta 3.200 volte al giorno, tutti i giorni.
Ti porti dietro la speranza che capiti qualcosa che faccia finire tutto questo, e ogni giorno ti ritrovi lì a ricominciare.
Inchiodato al tuo metro quadrato di terra.
Fuori senti parlare di tutt’altro.
E ti prende la vergogna di parlare dei tuoi ritmi, delle tue mele, della tua carta igienica…
E ti vien voglia di tacere.
Di tenerti dentro la tua rabbia.
Di non sapere più da chi andare a chiedere… “se questo è un uomo”!

GIANNI BELOTTI

 


 

Un mio commento

Come può un uomo che vive in questa condizione gran parte della sua giornata alzare lo sguardo a contemplare la bellezza di Dio? Il prete è lì a condividere con lui, operaio, la volontà di avere una vita diversa e proprio questo Dio vuole e Gesù ci ha detto.
Papa Francesco dice: “Non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità. Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità, quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita. Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo.” (Evangelii Gaudium n.52)
La chiesa che è popolo di Dio si incarna nei popoli della terra e “per la chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica” (E.G. n. 198).
E’ una opzione che don Gianni ha vissuto condividendo la vita in fabbrica per disvelare la verità di Cristo che è venuto come uomo fra gli uomini.
Anche oggi nella chiesa, anche bresciana, non mancano le idee, mancano le scelte di condivisione chiara che permettano anche al prete di essere non solo colui che annuncia una verità, ma prima di tutto colui che vive dentro una realtà condivisa con la gente per disvelare che lì è la bellezza del vangelo. Chi ha il compito di educare i nuovi preti, se ne faccia carico.

GIANCARLO PIANTA


 

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