Testimonianze


 

Cari amici, ogni tanto mi rifaccio vivo scrivendo qualcosa, anche se per noi pretioperai è tremendamente difficile scrivere, forse anche perché abbiamo poco tempo. La realtà nella quale siamo inseriti ci prende talmente che non ci ricordiamo dei nostri amici, della solidarietà che ci lega.
Leggo sempre volentieri i pensieri di quanti di noi hanno il coraggio e la voglia di raccontare le proprie inquietudini, speranze e soprattutto gli interrogativi che nascono da una vita vissuta intensamente.
Dopo qualche mese voglio rileggere con voi quello che ho scritto sulla mia agenda il 10 giugno di quest’anno.
“Volevo questa sera sentire i risultati del referendum e gioire per la vittoria del “sì”. Mettermi davanti al televisore e vedere il faccione di Craxi e amici. Sì, perché dopo tanti anni di sconfitte, di schiaffi presi a destra e a manca, godersi una serata così è proprio bello. Ma non è stato cosi.
Oggi pomeriggio è rientrato Marco (un ragazzo che ha vissuto con me per alcuni mesi) dalla Sicilia. Era andato laggiù per uscire da una certa situazione di dipendenza dalla droga, per la quale qualche giorno prima aveva perso il lavoro presso un distributore di benzina. Mi si presenta con l’amico da cui voleva staccarsi e che lo teneva inchiodato alla dipendenza. Diceva di star bene ma gli occhi e la mente erano altrove.
Durante la cena squilla il telefono, è per Tani (un ragazzo albanese che da maggio vive con me, ha chiesto asilo politico perché faceva parte del movimento studentesco di Tirana, coinvolto in prima persona nelle manifestazioni contro il governo): gli viene comunicato che un suo amico e compagno di lotta sta in coma dopo essere stato buttato giù dal quarto piano da due sconosciuti. Era appena uscito dal carcere, durato tre·anni. Qualche settimana prima un altro suo amico aveva fatto la stessa fine.
Sempre durante la cena arriva Moumin (un rifugiato politico di 42 anni; della Somalia, dove ha lasciato la moglie con 8 figli. È rimasto con me dall’ aprile ’90 all’agosto ’91), sta molto male, perché proprio oggi, dopo settimane di spasmodiche ricerche, riesce ad avere una lettera dalla moglie che portava la data del novembre scorso, spedita da un campo profughi dell’Etiopia dove si è rifugiata con i suoi figli. Teme per la loro salute in quanto le notizie non sono molto tranquillizzanti. Si mette a piangere come un bambino e ha paura di impazzire. Da oggi ha deciso di ritornare al suo paese precipitato in una guerra civile.
Qui a Malagrotta, alla periferia di Roma, dove vivo, le serate come quella sono moltissime; soprattutto in questi periodi di capovolgimenti, mi sembra di essere al crocevia del mondo.
Insieme a Moumin si è brindato alla cacciata del dittatore Siad-Barre; tengo a precisare che il mio amico somalo è astemio, ma quella sera ha bevuto con piacere lo spumante. Da qualche settimana è rientrato in Somalia e spero che si rifaccia vivo con qualche lettera.
Ho seguito con molta trepidazione il dramma degli albanesi a Bari, perché con uno di loro vivo e sinceramente mi sono vergognato di essere italiano, anche se non me ne importa di esserlo perché mi sento cittadino del mondo, grazie a tutte quelle persone che ho ospitato in casa in questi anni con le quali ho condiviso ansie e preoccupazioni e che mi sono state utilissime per capire le situazioni internazionali viste dal di dentro. Quelle foto drammatiche sui giornali (tra l’altro una di esse pubblicata dal “Manifesto” ha vinto il premio come foto dell’ anno!) e quei pezzi di telegiornale che hanno fatto il giro del mondo mi hanno fatto star male anche perché vivo quotidianamente il dramma di tante persone che passano alla porta di casa per chiedere lavoro e alloggio. Passano da me non perché sono un prete, essi non lo sanno, ma perché abito al capolinea di tre autobus di periferia da dove ogni giorno scendono decine e decine di polacchi, albanesi, nordafricani, pachistani e gente di colore pensando di trovare lavoro nelle aziende agricole.
Mi viene in mente Azim, un pachistano: lo scorso anno si presenta a casa per chiedere lavoro, non riusciva a reggersi in piedi perché a digiuno da molti giorni. Lo faccio entrare e gli do un piatto di pasta, era l’ora del pranzo. Abbiamo poi parlato a lungo e il giorno dopo sono andato a trovarlo dove abitava: in una baracca di campagna vivevano dieci persone, senza acqua e luce, pagando 250 mila lire al mese per una brandina. Solo uno di loro era riuscito a trovare lavoro e con il suo stipendio aiutava tutti gli altri a sopravvivere. E questa solidarietà tra di loro è eccezionale, la stessa che c’era alla Pantanella, che i giornali hanno presentato come il covo della delinquenza e dello spaccio di droga di 3 mila immigrati. Azim, ha lavorato in casa mia per qualche giorno, gli ho fatto dipingere tutta la chiesa, dove hanno lavorato anche rumeni, iraniani, iracheni e un italiano (che mi ha fregato i soldi dentro casa e altre cose!).
Quando ti si presenta qualcuno è facile dire che non c’è niente, che è difficile trovare un lavoro, che i tempi sono duri per gli immigrati; penso che queste non siano delle risposte oneste, in quanto la parabola del samaritano vale per tutti, soprattutto per noi; e molte volte fasciare le ferite di una persona significa mettere a disposizione parte del nostro tempo, o qualche telefonata agli amici vari per riattivare una rete di aiuto.
Il “passare parola” è molto importante soprattutto in una città come Roma, dove il lavoro provvisorio si trova ogni giorno. È quel tanto che basta per prendere tempo e trovare soluzioni più stabili.
Come pure è importante non far aspettare le persone sulla porta di casa perché si ha paura a farle entrare a bere un bicchiere d’acqua o dividere il piatto di pasta con chi capita mentre stai mangiando e saper ascoltare attentamente quello che dicono, staccando il telefono per non sentire altre persone perché chi mi sta davanti in quel momento ha diritto a tutta la mia attenzione, dà il senso della casa aperta, dell’ascolto e del dialogo. Quando vado in qualche ufficio non mi presento mai come prete: questo lo faccio da vent’anni e credo che tutti facciano lo stesso. Ma se voglio ottenere qualcosa quando telefono per un alloggio o per un lavoro, se non mi presento come prete non ottengo nulla. È stata per me una sorpresa, pensavo che certe cose fossero superate e che i preti non avessero più potere nelle grosse città, ma non è vero. Tante stanze ho trovato e lavoro per persone che avevano bisogno, dicendo che ero un prete! Era quasi un divertimento e ridevo con me stesso. Ma sono contento di avere usato questo “potere” per gli altri.
Come pure è una sorpresa per molte persone sapere che ci sono ancora i pretioperai e gli artigiani come me sono visti un po’ come i monaci che si dedicano alle erbe o arti particolari, facendo il loro mestiere con passione. In questi ultimi tempi il lavoro del falegname è molto rivalutato perché raro ed è diventato costosissimo: quei pochi artigiani rimasti fanno valere la loro professionalità e si arricchiscono.
Da tempo ho fatto la scelta del necessario e dell’accontentarmi di una paga che si avvicina alla media degli operai che lavorano in una fabbrica e nel momento del bisogno uso l’arma dello straordinario, come fanno tutti coloro che devono far fronte a spese straordinarie e impreviste. Questo lo posso fare perché c’è tantissimo lavoro, che diventa per me momento di incontro con le persone e appena posso uso la mia professionalità per insegnare delle tecniche che permettono loro in certi casi di fare a meno del falegname. Ben venga il”fai da te”, significa che si sta recuperando il senso della manualità evitando degli sprechi inutili. Siamo arrivati al punto che la gente non è più capace di avvitare una vite e quindi chiama il falegname perché gli è caduto lo sportello della cucina a causa di una vite che si è allentata!
Ho rinunciato inoltre alla lavorazione di legni esotici, perché so che quegli alberi non verranno mai ripiantati e quei terreni dell’Africa o dell’Amazzonia diventeranno dei deserti
A modo mio sto facendo una battaglia per l’ecologia, consigliando legni europei come il pino, il frassino, rovere e faggio, che sono gli alberi delle nostre montagne, così pure il castagno che purtroppo sta diventando un po’ raro. Sono questi gli alberi della nostra infanzia e dei nostri ricordi più belli, carichi di odori inconfondibili.
Scusatemi, non volevo fare una lezione di falegnameria, ma se venite a casa mia, apprezzerete la bellezza del legno e anche dell’ ospitalità.
Non per niente la vecchia casa in cui abito (anno 1774) era fino al secolo scorso una vecchia “posta dei cavalli” dello Stato Pontificio, sull’Aurelia.

Mario Signorelli


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