Il vangelo nel tempo
Tra i testi sapienziali, i Salmi offrono preziose indicazioni a riguardo di una sapienza della crisi. Il Salterio è una raccolta di 150 preghiere chiamato Sefer Tehillim , il libro delle lodi. I salmi in realtà non sono solo preghiere di lode; in essi abbondano i lamenti, le suppliche, le grida e le esplosioni di rabbia, accanto alle riflessioni sapienziali e alla memoria storica. Tuttavia questo titolo redazionale, che sintetizza nella lode il linguaggio della preghiera, sembra suggerire che, pur nella distretta, il rapporto con Dio poggia sulla fiducia che quelle sventure, quelle difficoltà del vivere non avranno l’ultima parola e non metteranno totalmente a tacere la lode. Dio ascolterà il grido del disperato come ha ascoltato il grido del popolo schiavo in Egitto (Es 2,23-25) e la lode riprenderà. Ecco perché, probabilmente, la formula con cui generalmente si concludono i salmi è proprio la lode. Ci si interroga sulle modalità di assemblaggio dei salmi. E’ evidente che non si tratta di una semplice raccolta di preghiere, un’antologia, una cava da cui estrarre testi o metafore a seconda degli stati d’animo. Dietro alla composizione del Salterio c’è un progetto teologico. L’ipotesi più accreditata sulla composizione del Salterio è quella canonica che ricerca un progetto complessivo nella stesura finale. Il salterio è strutturato in cinque libri: (3-41); (42-72); (73-89); (90-106); (107-150). Come i cinque libri della Torà, anche il Salterio si presenta come un Pentateuco, una Torà orante. Si stabilisce un rapporto speculare, dialogico con la parola che interpella l’uomo: alla parola di Dio risponde la parola che interpella Dio.
Anche chi fatica a cogliere una chiara struttura logica nella composizione canonica dei salmi riconosce che la cornice in cui questi vengono inseriti, ovvero l’inizio e la fine del Salterio, offre una chiave di lettura, un orientamento nell’esperienza della preghiera.
Il portale d’ingresso, rappresentato dal salmo 1, propone come unica vera ricerca di felicità la fedeltà a Dio e l’ubbidienza alla sua legge. Il salmo 2, subito dopo, ci dice però che questo progetto trova opposizione: perché le genti congiurano e mormorano i popoli ? Anche questa amara constatazione è programmatica di tutto il Salterio. Qui parla un credente che intuisce la bontà della proposta divina, ma sperimenta anche l’enorme potenza del negativo.
Alla fine del Salterio tutto converge nella lode: il male è stato eliminato e la lode viene celebrata come la giusta risposta umana alla parola divina della creazione e dell’alleanza. Nel Salmo 150 per 10 volte risuona l’invito a lodare il Signore, proprio come si trovano 10 parole nel racconto della creazione (Gen 1,1-2,4a) e altre 10 nel decalogo (Es 20; Dt 5).
“C’è un rapporto tra le dieci parole della creazione e quelle della legge. Mediante la sua parola Dio mette in ordine il caos primordiale, creando un mondo ordinato e armonioso. Analogamente, chi obbedisce alle parole della legge mette ordine nella sua vita personale e sociale, contribuendo a costruire una convivenza umana saggia e pacifica. Con la lode del Sal 150 l’uomo risponde alla parola che Dio ha pronunziato sia nella creazione che nella legge riconoscendo che entrambe sono suo dono, e vi consente dando voce anche al canto dell’universo” (D. Scaiola, La “chiusura” del Salterio: lettura dei salmi 149 e 150 , in Parole di vita 1 (2005), p. 24).
Ma la lode è esito di un percorso che non semplifica e non rimuove: “Il Salterio mette in scena un mondo dove, sotto lo sguardo di un Dio di vita, i protagonisti si trovano alle prese col male, siano essi ora attori, ora vittime, ora spettatori” (André Wénin, Entrare nei Salmi , EDB, Bologna 2002, p. 63).
I salmi sono specchio che riflette la molteplicità degli stati d’animo umani. Essi sono tuttavia finestre che aprono la fede sul panorama complesso della storia: ci fanno muovere in un paesaggio dove ci sentiamo a casa e ci orientiamo; e tuttavia, ci guidano anche per orizzonti sconosciuti, che ci inquietano e disorientano. I salmi, nella loro complessità, sono una finestra preziosa anche per non identificare il panorama biblico con una teologia della retribuzione, dove l’abbandono di Dio è letto come risposta all’infedeltà umana. Il salmo 22, di cui vogliamo metterci in ascolto, resiste a questo tentativo di discolpare Dio incolpando il suo popolo. E’ un’invocazione che preserva la specificità della sofferenza individuale, di cui nessuna teologia della storia sembra rendere conto. E’ domanda che non trova soddisfazione nella risposta dei profeti e resta ostinatamente aperta, come nel libro di Giobbe. (Si veda: A. LaCocque – P. Ricoeur, Come pensa la Bibbia , ed. Paideia, Brescia 2002 , pp.193-233).
All’interno del Salterio, il Salmo 22 è uno dei testi più noti a proposito della crisi. Se non altro perché il grido-ruggito iniziale – Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? – lo si ritrova sulla bocca di Gesù sulla croce. Anche ad una lettura superficiale emerge la differenza di tono tra una prima parte di lamento (vv. 2-22) ed una seconda caratterizzata dal ringraziamento e dalla lode (vv. 23-32). Proviamo ad assimilare entrambi gli ingredienti, cercando di capire come possano amalgamarsi e quale nutrimento ci offrono a proposito della crisi. Ma, innanzitutto, leggiamo il testo nella trasduzione di André Wénin (op. cit. , pp. 94-95):
Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Lontano dalla mia salvezza le parole del mio ruggito.
Mio Dio, chiamo di giorno e tu non rispondi
e di notte nessun silenzio per me.
E tu, il Santo che abiti le lodi d’Israele,
in te confidarono i nostri padri, si fidarono e tu li liberasti;
verso te gridarono e fuggirono,
in te confidarono e non furono confusi.
E io, verme e non uomo,
vergogna della gente e disprezzato dal popolo,
tutti quelli che mi vedono si burlano di me,
divaricano le labbra e scuotono la testa:
“Si affida ad Adonai? Che lo scampi,
che lo liberi, poiché in lui si compiace!”.
Tu infatti mi traesti dal ventre,
mia fiducia sui seni di mia madre,
su di te fui gettato dalla matrice
fin dal ventre di mia madre, il mio Dio sei tu.
Non star lontano da me
poiché l’angoscia è vicina e nessun aiuto.
Mi circondano tori numerosi,
potenti di Bashan mi accerchiano;
spalancano contro di me la loro bocca,
leone che divora e ruggisce.
Come l’acqua mi spando
E si sconnettono tutte le mie ossa;
il mio cuore è come la cera,
si scioglie in mezzo alle mie viscere;
secco come un coccio il mio palato,
e la mia lingua incollata alle mie mascelle.
A polvere di morte mi riduci.
Mi circondano infatti dei cani
Una banda di malvagi mi circonda
Come per lacerare le mie mani e i miei piedi;
posso contare tutte le mie ossa.
Loro guardano: mi vedono,
spartiscono i miei vestiti per loro,
sul mio abito gettano la sorte.
E tu, Adonai, non star lontano,
mia forza, in mio aiuto, affrettati!
Libera dalla spada il mio soffio
dalla mano del cane, il mio unico.
Salvami dalla bocca del leone
e dalle corna dei bufali. Mi hai risposto!
Racconterò il tuo nome ai miei fratelli,
in piena assemblea, ti loderò:
“Voi che temete Adonai, lodatelo,
tutta la discendenza di Giacobbe, glorificatelo
e tremate davanti a lui, discendenza tutta di Israele.
Infatti non ha avuto disprezzo né disgusto
Dell’umiliazione dell’umiliato
e non ha nascosto il suo volto da lui,
e quando gridava verso di lui, l’ha udito”.
Da te la mia lode nell’assemblea numerosa;
i miei voti, li adempirò davanti a coloro che lo temono:
“Mangino gli umiliati e si sazino,
lodino Adonai coloro che lo cercano,
viva il vostro cuore per sempre”.
Si ricorderanno e torneranno verso Adonai,
tutti i confini della terra;
e si prostreranno davanti a te tutte le famiglie delle nazioni,
infatti ad Adonai la regalità e il dominio sulle nazioni.
Hanno mangiato e si sono prosternati tutti i grassi della terra,
davanti a lui s’inginocchiano tutti coloro che scendono in polvere:
“il suo soffio, davvero, l’ha fatto vivere!”.
Una discendenza lo servirà,
si racconterà per Adonai alla generazione che viene,
riferiranno la sua giustizia al popolo che nasce,
poiché egli ha agito.
Colui che si rivolge a Dio, lo fa a partire dalla propria condizione riconosciuta con estrema lucidità come situazione di crisi, nella quale i legami fondamentali vengono meno. Non c’è la preoccupazione religiosa di difendere Dio. Quest’ultimo è percepito come lontano (vv. 2, 12, 20): ha abbandonato senza motivo e ha ridotto a polvere di morte (v. 16) il suo fedele. Proprio quando la sua presenza è necessaria per la salvezza, Dio non risponde: c’è solo un silenzio di morte (1). Guardare in faccia alla crisi, rinunciando al filtro delle lenti deformanti degli occhiali religiosi, impegnati a cogliere la presenza di Dio anche quando è assente: è l’onestà intellettuale che contraddistingue la sapienza della crisi veicolata dal nostro salmo.
Una lucidità che spinge ad una radicale messa in discussione: la sapienza che invita ad abbandonarsi a Dio affronta lo scacco dell’essere abbandonati da Dio. In cosa consiste, infatti, il cuore della sapienza biblica, se non nel confidare nel Dio che salva? Questa è l’esperienza fondante di Israele ricordata al v. 5: in Te confidarono i nostri padri, si fidarono e Tu li liberasti . Ora la crisi è tale proprio perché rimette in discussione questa fiducia di base. E lo fa irridendo, parodizzando la speranza riposta: si affida ad Adonai? Che lo scampi, che lo liberi, poiché in Lui si compiace! (v. 9). Una sapienza, dunque, che non gioca in difesa, che è capace di autocritica. E, tuttavia, questo sperimentare e gridare l’abbandono dice molto di più. Qui, sotto la cenere della crisi, è ancora vivo il fuoco della passione. Al punto che sembra quasi che il lamento non nasca tanto dal subire il disprezzo, le beffe, la violenza, quanto piuttosto unicamente dall’assenza di Dio. Al salmista possono levargli tutto ma non quella relazione vitale che sorregge la sua vita fin dal giorno della nascita. Non è la chiarezza interiore che lo salva, bensì la forza di una relazione. E’ grazie alla relazione che ha imparato ad avere fiducia, a sperimentare la vita come bene affidabile. Ed ora che tutto gli crolla addosso, grida a Dio, pretendendo che anche nell’abbandono continui ad ascoltarlo. E’ paradossale una tale preghiera che oppone all’abbandono la memoria incancellabile della relazione, la nostalgia della vita amata, sottratta alla minaccia. E’ come se volesse tener vivo a tutti i costi un Dio agonizzante, assente; almeno per interrogarlo: se prima mi hai adottato, perché ora mi respingi? La crisi diventa fatale quando ci convince che siamo soli, che il tessuto relazionale che normalmente ci sorregge s’è rotto. Il sentirsi soli, isolati spinge alla disperazione, come ci insegna la vicenda di Elia profeta (1Re 19). Il salmista ne è consapevole e allora urla, interroga, invoca. Chi è abitato dal fuoco della passione non può arrendersi neppure di fronte all’evidenza dello scacco: continua a sperare contro ogni speranza! Finché Dio non è trasformato in un idolo muto, si può affrontare la vita con la dignità dei figli, nonostante tutto.
Certo, qui la crisi è oltrepassata perché alla fine Dio risponde. Il Tu mi hai risposto (v. 22) segna il passaggio dal grido di supplica al ringraziamento e alla lode. Solo una salvezza non presunta ma concretamente sperimentata trasforma il lamento in danza. Chiedere di cantare mentre si è ancora in esilio, in terra straniera, sarebbe passare dalla sapienza alla mistificazione, dalla lucidità all’oppio!
Il Salmo riesce ad articolare le due sensazioni opposte della perdizione e della salvezza perché accende uno sguardo retrospettivo, che rilegge le tenebre del passato alla luce di un presente finalmente positivo; la vita, invece, si gioca nel presente. E quando nel presente si sperimenta l’angoscia di chi è circondato dalla presenza disumana della morte, non si vive questo come “prova” destinata presto a risolversi, bensì come abbandono vero e proprio. La sapienza della crisi nasce, dunque, da uno sguardo lucido e non mistificatorio e, insieme, ampio, capace cioè di inserire l’esperienza dell’abbandono nella trama temporale fatta di presente-passato-futuro… Ma la memoria di quanto Dio ha operato nei confronti dei padri (vv. 4-6) e la speranza di quanto farà per le generazioni future (vv. 31-32) non cancellano il dramma del presente.
Inoltre, la risposta, che non toglie la memoria dell’abbandono, può essere solo evocata discretamente. Cosa sia successo, come sia stata capovolta la situazione, che fine abbiano fatto i nemici…: niente di tutto questo ci viene detto. Non si esibisce trionfalisticamente lo scenario della salvezza; si lascia piuttosto spazio all’espandersi della lode: una lode pubblica, non incentrata sulla propria salvezza personale bensì capace di abbracciare la storia umana a partire dagli ultimi (vv. 25-27). Ma come coniugare la discrezione nel parlare dell’intervento divino e l’entusiasmo della lode? E poi, come tenere insieme la propria esperienza di salvezza e la fame non ancora saziata di chi continua a sentire sulla propria pelle lo scacco dell’umiliazione? La lode dei salvati ed il silenzio dei sommersi?
La sapienza della crisi, che ha attraversato la situazione disperata senza lasciarsene paralizzare, diventa sapienza narrativa: il raccontare (vv. 23 e 31) che Dio ha udito il grido (v. 25) ed ha agito (v. 32), proprio quando venivano meno le forze e la bocca inaridita non era più in grado di continuare a gridare aiuto. Un racconto biografico, a partire da sé, ma non preoccupato di pubblicizzare il proprio vissuto, per quanto eccezionale possa risultare, bensì un nome che tenga viva la speranza degli umiliati (v. 23) ed una giustizia che difenda chi è preda delle bocche spalancate dei potenti. E’ il racconto del Regno giusto di Dio: ad Adonai la regalità ed il dominio sulle nazioni (v. 29).
L’evangelista Marco riprenderà il filo della narrazione proprio da qui: Dio regna. Ma la sua narrazione capovolge il movimento del Salmo 22: dal Regno all’abbandono…. Ci torneremo la prossima volta!
Angelo Reginato
(1) Il testo ebraico al v. 3 parla, letteralmente, di non-silenzio. Così traduce e commenta A. Neher: “… e la notte, che cosa dunque si rivela a me: il Non-Silenzio!” Di giorno soffrivo perché non sentivo alcuna risposta al mio grido, soffrivo per il silenzio. Di notte, la mia sofferenza diventa più atroce perché il silenzio mi trascina con sé nel regno del suo nulla (A. Neher, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz , ed. Marietti, Genova 1991, pp. 80-81).[ritorna]