Progetti sociali


 

Alcuni operatori nel settore della salute intervengono
sulla proposta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
(stralci della relazione introduttiva al Forum per gli operatori della salute,
tenuto a Mantova il 12 novembre 1987)

Premessa

1) “L’Espressione ‘Salute per tutti nell’anno 2000’ sta a significare che nell’anno 2000 tutti gli abitanti di tutti i paesi del mondo devono poter raggiungere un livello di salute che permette loro di condurre una vita socialmente ed economicamente produttiva, vale a dire che dovrà essere data a ciascuno la possibilità di godere di uno stato di salute che gli permetta di lavorare in modo produttivo e di partecipare alla vita sociale della collettività”.
Per interpretare correttamente l’istanza della “salute per tutti” c’è da sottolineare – ci si perdoni l’ovvietà – che questo significa che ogni essere umano vedrà soddisfare i bisogni elementari del cibo, degli indumenti, della casa… Sappiamo bene che parlare di salute e di organizzazione delle strutture sanitarie prescindendo da questo fondamentale aspetto rappresenta un’opera di mistificazione.
Ma proprio qui esplode il problema: i rapporti economici tra Paesi industrializzati e ricchi e quelli del terzo mondo sono tali da non lasciar prevedere, stanti gli attuali meccanismi, un miglioramento della situazione economica ed alimentare delle popolazioni del sud della Terra; si assiste, anzi, in molti casi ad un deterioramento ulteriore e progressivo.
Allora la meta indicata, e cioè che “nell’anno 2000 tutti gli abitanti di tutti i Paesi del mondo devono poter raggiungere un livello di salute che permetta loro di condurre una vita socialmente ed economicamente produttiva” è alla radice condizionata dalla formazione di un nuovo ordine economico mondiale che si ponga come obiettivo centrale che almeno i bisogni elementari di ogni uomo trovino soddisfazione. Se questa è utopia irraggiungibile, allora lo è anche il progetto “Salute per tutti nel 2000”.

2) Un secondo elemento di riflessione nel quale siamo pienamente coinvolti è il processo di mercificazione al quale la salute, come altri beni umani, sono soggetti. Sulla malattia e sulla promessa di salute regna una rete di affari colossali. “La ricerca del profitto fa del campo sanitario uno dei punti caldi dell’attività capitalistica (industria farmaceutica, materiale medico, ospedalizzazione privata…): le cure sono merci e i pazienti consumatori.”
Il problema che poniamo è il seguente: la cultura e la prassi mercantile proprio per il loro centro di “interesse” non sono in gran parte in contraddizione con la salute intesa come bene umano e diritto fondamentale delle persone?
In questa sede riteniamo doveroso denunciare i limiti orrendi cui può condurre il mercato della salute.
“È stato scoperto un traffico di bambini guatemaltechi destinati ad essere donatori di organi (reni, cornea…) per bambini europei e statunitensi… Vale la pena di ricordare che il fatto è nuovo solo per la sua ‘forma’. La sostanza ha radici lontane. Il traffico di sangue dai Paesi più affermati verso quelli sazi, di cibo e di tecnologia, è una vecchia storia…”
“Pensate al livello organizzativo, professionale, scientifico e imprenditoriale che questa moderna barbarie esige. Esportare, selezionare, conservare, trapiantare organi umani, non è un’impresa rozza come un traffico di mano d’opera clandestina o di film pornografici sia pure cruenti, o un giro di prostituzione infantile negli scantinati dell’UNICEF, e neppure un contrabbando di diamanti o di armi o di droga.
No, sarà indispensabile personale altamente specializzato, una rete di complicità non solo materiali, ma anche culturali, una ricerca di mercato tra le più sofisticate, intere strutture sanitarie disponibili ed altamente attrezzate nelle più civili metropoli del pianeta.
Forse è solo un inizio, un affare ancora sperimentale, ma di sicuro avvenire.” (G. Tognoni, Etica 1987, Rivista dell’infermiere).
3) Da qui una terza accentuazione. Chi sono i soggetti primi interessati alla salute? Sono i cittadini, le persone che nella loro pelle, corpo, psiche e capacità di pensare, vivono la minaccia alla loro integrità.
Questo vuol dire che gli “addetti” alla sanità sono solo un momento secondo, anche se importante. E vuol dire anche che i soggetti primi, cioè i cittadini, non possono mai essere ridotti a “oggetto” di cura da parte di altri… Questo significa che funzione primaria degli “addetti alla sanità” è operare perché i soggetti primi della salute, i cittadini, possano sviluppare la loro capacità attiva di difendere e provvedere alla propria salute. Ognuno può immaginare le conseguenze che derivano da una tale impostazione!

Salute

(…) Nella contrapposizione “malattia-salute”, la salute viene definita a partire dalla malattia. È l’assenza di malattie.
Su questo schema siamo stati allevati e formati come operatori. Ad esso si ispira in gran parte l’organizzazione sanitaria, la cultura e la mentalità dominanti. Dai luoghi della malattia si elabora il concetto di salute.
Succede che il malato, cioè colui che “ha perduto la salute”, subisce un processo di identificazione con la sua malattia e, in questa identificazione, deve consegnarsi nelle mani di chi ha competenza di guarire la sua malattia e di restituirgli la salute.
I luoghi di cura sono concepiti in rapporto alla malattia da curare, prescindendo dal riconoscimento e potenziamento delle energie vitali presenti nel soggetto – cittadino e che dovrebbero, in qualche modo, trovare possibilità espressive nell’organizzazione della vita ospedaliera.
In realtà qualunque suo diritto passa in secondo ordine di fronte alla “consegna” che uno deve fare di se stesso all’ambiente ed alle persone nelle cui mani passa la competenza ed il diritto-dovere di curarlo.
Chi guarisce vive l’impressione di “ricevere dall’esterno” il recupero della salute; chi non ce la fa a guarire, e quindi oggettivamente è indisponibile a debellare la malattia, in genere subisce una forma di abbandono…
Noi pensiamo che qualunque processo di espropriazione, compreso quello relativo al proprio essere malato, corrisponda ad una relazione “patologica” nel senso che toglie al primo interessato la radicale competenza su quanto intimamente lo concerne, riducendolo ad un oggetto, sia pure con l’intenzione e lo sforzo di curarlo.
Lo schema “malattia – salute” tende a sottovalutare l’uomo nella sua esistenza concreta che è “tempo di vivere e tempo di morire”.
Vi è una sanità di fondo che precede l’aspetto fenomenologico della malattia e della salute. Noi la identifichiamo con “la forza di essere uomo” anche nei momenti più duri della vita.
Quando un uomo riesce a rimanere se stesso anche di fronte alla malattia, mantenendo quindi un atteggiamento attivo che si esprime anche come resistenza e lotta nel vivere il proprio destino… ecco, in questo noi vediamo l’espressione di una sanità fondamentale.
Vi è una “sanità” dell’organizzazione sanitaria, e degli operatori, che consiste nell’assoluto rispetto del fatto semplicissimo che uno rimane uomo in qualsiasi situazione, accettandolo come partner di una relazione nella quale “lui” viene accolto come soggetto attivo, che conserva per intero i suoi diritti di cittadino.
Anche l’insieme degli interventi sono “sani” e tendenzialmente “sananti” nella misura in cui servono a potenziare le capacità vitali di un individuo in una lotta nella quale “lui” rimane sempre il primo interessato.
È possibile parlare di una risposta “sana” anche per chi sta vivendo il tempo del suo morire. È quella di un ambiente che non rifiuta ad un uomo il diritto di morire in un contesto umano.
Una struttura sanitaria o un ambiente di cura sono “mal-sani” quando disattendono o contraddicono queste “sanità” di fondo.

La salute come istanza critica delle strutture sanitarie

Ci siamo soffermati nella descrizione della salute in rapporto all’esistenza concreta dell’uomo perché questo ci pare il nodo dal quale sempre ripartire e ripensare in termini critici l’intera impostazione della sanità. Nessuno infatti rifiuta in termini di principio che l’apparato sanitario debba servire alla salute dei cittadini. Ma un conto è fare affermazioni di principio, un conto è sottoporre a verifica scientifica se davvero e sempre questo avviene.
Occorre cioè nel concreto storico sottoporre all’esame ed alla riflessione quanto si sta facendo, non dando per scontato “una volta per tutte” che ad ogni intervento sanitario corrisponda necessariamente una produzione di salute.
Può succedere anche il contrario.
La coscienza di questa possibilità, unita alla consapevolezza della relatività di quanto acquisito, quindi la disponibilità a cambiare, fanno parte dell’intelligenza che voglia assumere un atteggiamento scientifico di fronte alla realtà storica.
Dato che in questa sede non ci è possibile approfondire in maniera sistematica il contenuto del discorso, riteniamo utile attraverso alcuni esempi fare emergere il problema.
Immaginiamo che per un mese nel territorio di una USSL non si registri alcuna patologia chirurgica degna di ricovero. Pensiamo a stanze o corsie vuote di malati, a sale operatorie inoperose, a medici e infermieri senza una popolazione sulla quale intervenire, agli orari delle visite senza un’anima viva… certo il nostro è un gioco di fantasia, ma andiamo avanti e chiediamoci: che avverrebbe in una situazione del genere?
Vediamo i vari soggetti. I cittadini sono ben felici di non dover assaggiare i ferri chirurgici. Così pure i parenti. Forse ancor più l’apparato economico produttivo che può contare sull’efficienza dell’organico.
Ma… che avverrebbe nei reparti di chirurgia e nell’insieme dell’organizzazione ospedaliera? E medici ed infermieri come si muoverebbero in tale situazione di vuoto? E come valutare la produttività?
Ci viene da pensare che paradossalmente al benessere dei cittadini verrebbe a determinarsi una situazione di malessere per operatori e strutture! E chi sa se non si indulgerebbe a qualche ricovero anche se non per stretti motivi clinici!

Altra ipotesi. Supponiamo che da una ricerca sulla popolazione risulti che in un dato territorio il 40% di indagini radiologiche non risponda a precisi criteri di utilità diagnostica.
Allora da un lato abbiamo un 40% di cittadini indagati ed irradiati senza alcun vantaggio clinico, anzi di cittadini danneggiati da un intervento nell’ambito della struttura sanitaria, dall’altro un servizio estremamente “produttivo” ed in esso operatori legittimati a credersi efficienti.
Un terzo elemento di riflessione viene suggerito dal rapporto farmaci – salute. “Esiste una certa confusione, spesso alimentata dalla propaganda dell’industria farmaceutica, circa le caratteristiche che un farmaco debba avere per poter essere immesso sul mercato e quindi essere prescrivibile da parte del medico.
La confusione sta sostanzialmente nello scambiare le proprietà farmacologiche di un farmaco per la sua attività terapeutica, cioè per un beneficio che deriva al paziente.
Esistono ormai numerosi studi e ricerche che mettono in luce la pericolosità legata ad una tossicità in qualche modo sempre presente, la superficialità con la quale si procede alla prescrizione ed alla distribuzione, la fiducia indiscriminata di cui godono tante sostanze chimiche la cui efficacia non è dimostrata.
Certamente sul fronte dei farmaci siamo in una situazione di inquinamento grave, determinata dal fatto che essi sono una “merce” di mercato.
Non di rado il consumo di un farmaco registra aumenti vertiginosi in conseguenza di un lancio pubblicitario azzeccato. Il farmaco quindi reclamizzato come il collant e la Saila Menta! Con questa grave differenza: la forza dell’attrazione della sua immagine sta nell’indurre a pensare che questa medicina possiede capacità univoche per la restituzione della salute.


Gli esempi addotti mettono in luce la situazione di divario, di crisi tra l’istanza di salute vissuta dai cittadini e il concreto funzionamento del momento sanitario. Noi pensiamo che il divario è superabile nella misura in cui si stabilisce in maniera corretta la relazione tra l’organizzazione sanitaria con gli operatori che la compongono e i cittadini, la cui salute viene assunta come bene e valore più alto.
La domanda ultima, quella discriminante, si pone in questo modo: “serve, e fino a che punto, alla salute dei cittadini?”.
Qualunque struttura sanitaria che elaborasse finalità e metodologie proprie prescindendo di fatto dai bisogni reali di singoli e collettività è inevitabilmente destinata a diventare patologica e patogena.
Mentre è sana e sanante quella che accetta in pieno la relazione con i cittadini di cui riconosce e difende nel concreto il bene umano della salute orientando a questo scopo l’attività culturale ed organizzativa.

E noi operatori?

(…) In genere a noi operatori subalterni non viene richiesto di essere intellettivamente e responsabilmente attivi. Siamo pagati per essere docili esecutori: produttori di esecuzione.
Anche se ci accorgiamo che vi sono procedure, sistemi, nell’organizzazione sanitaria che mal si accordano con l’interesse primario della salute della gente, a noi rimane la mera esecuzione; l’orizzonte delle finalità requisito nell’ordine del “lavoro intellettuale” sfugge alle nostre competenze. Ma proprio qui emerge la contraddizione.
Se è la corretta relazione con i cittadini, in quanto soggetti del loro star bene o male, nel territorio, o all’ospedale, il criterio base sul quale valutare la “sanità” del rapporto tra organizzazione sanitaria e salute, allora che senso ha il processo di passivizzazione degli operatori? Come è possibile che degli operatori passivi possano instaurare relazioni “sane” col cittadino – utente?
La nostra risposta è la seguente: nella sostanza vi è una impostazione autoritaria della “gestione della salute”; tale gestione esige e pratica tendenzialmente la riduzione allo stato passivo del cittadino, nel momento in cui si rivolge alla struttura sanitaria.
Nella misura in cui noi agiamo passivamente concorriamo a rendere patologica la relazione con l’utente. La passività dell’operatore è speculare a quella del cittadino; una si salda con l’altra.
Intravvediamo una sola via d’uscita. Quella di restituire ai cittadini la loro competenza originaria per tutto quanto concerne la loro salute. Per noi operatori significa un pensiero attivo che investe le conoscenze professionali, le capacità acquisite e l’atteggiamento concreto col quale viviamo la relazione. In sostanza è una alleanza con i cittadini dei quali e con i quali (noi stessi lo siamo) si assume l’istanza primaria della salute come bene e punto critico dal quale far funzionare il pensiero attivo. Conoscenze, capacità acquisite e da acquisire, atteggiamento pratico sempre di nuovo ripolarizzati in funzione della salute, di singoli e collettività, come bene umano primario.
Aprendo la nostra esposizione dicevamo che il senso di questo convegno dipende dalla capacità di mettere in moto il nostro pensiero attivo e di dare nel tempo una continuità non formale né celebrativa a questo lavoro.
È ovvio che si pongono grossi problemi.
Qualcuno potrebbe facilmente pensare che tali problemi non si risolvono.

Infatti i problemi non si risolvono… Si affrontano.
Affrontandoli si portano ad un livello più alto.
I problemi si elevano…
Nella misura in cui l’uomo e la donna, nel loro contesto di vita
riflettono su di esso e rispondono alle sfide che questo present
a loro,
essi creano
la
loro cultura e si formano la coscienza
(Coop. di Cult. Pop. “Don Milani”, Le due lotte del delegato di popolo, documento 146).

Conclusione

Le cose dette non pretendono certo di essere prese come oro colato. Il nostro è un semplice tentativo di esercitare il pensiero attivo assumendo la salute come valore e bene proprio dei cittadini.
Da questa luce occorre giudicare ed orientare tutto il resto cui deve essere attribuito il valore, ma anche il limite, di mezzo in funzione dell’unica istanza degna di essere indicata come fine.
Assumere questa prospettiva, ragionare con questo ordine, dà l’impressione dell’utopia. Quando infatti i mezzi usurpano il posto delle finalità, denunciano queste come utopiche, irrealizzabili, fuori luogo. Invece sono proprio le finalità semplici e giuste che danno sapore e senso alla realtà e consentono di trovare il valore del proprio lavoro e quindi il ruolo da svolgere.
Per questo noi operatori dobbiamo rompere il confinamento nell’eseguire passivo e assumere la finalità, nel nostro caso la salute dei cittadini, come misura e criterio del nostro pensiero e dell’agire responsabile.


ROBERTO FIORINI
e altri operatori della salute


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