Testimonianze di pretioperai su Carlo Carlevaris (3) 


 

L’istituzione Chiesa, il suo atteggiamento precettistico, la rigidità di alcuni aspetti della sua morale, il timore di perdere la sua presenza autoritativa, paiono mostrare un cristianesimo che non è capace di far lievitare le molte potenziali risorse che l’uomo di oggi sarebbe in grado di esprimere. Può darsi che i preti operai siano stati deboli testimoni di speranza e di vita in questi decenni, che non abbiano avvenire. Oggi essi vivono nelle loro carni le paure e i disagi di questo tempo esaltante per i suoi risultati scientifici, ma angosciante per il futuro dei più deboli della società. Da questa situazione totalmente condivisa essi lanciano un grido alla Chiesa, alle comunità dei credenti, perché insieme trovino il coraggio di un annuncio che sia testimonianza e denuncia dei mali, e insieme voce di speranza nella fede e nella radicalità evangelica… Con i miei fratelli, i PO, siamo partiti a piantare la nostra tenda tra le popolazioni da cui la nostra Chiesa si era allontanata con l’avvento del capitalismo. E’ stata una migrazione senza ritorno. Ora che lavoro sono diventato diverso, membro di un popolo, non vicino né sopra, ma dentro. Le sue gioie e pene sono le mie io sono passato dal1’altra parte del muro. Il mio problema non è più quello di cercare di raggiungere questo mondo e come risolverlo: la gente non è la in basso: essi sono là e io pure.” Così scriveva don Carlo Carlevaris nel marzo 1998 su Itinerari.

Di lui con commozione ricordo incontri, dialoghi, la lucidità delle scelte di vita, coraggiose, in punta di piedi con una grande pressione ambientale e una sostanziale ostilità ecclesiastica.

Gli scossoni del Concilio e del 1968 il senso della storia e l’amore per il mondo, una coscienza molto partecipativa hanno dato “concretezza” ad un modo diverso di esercitare il ministero di prete. Con noi PO ha condiviso con continuità fatti e motivazioni.

Leader indiscusso, abile e polemico nel dialogare, intelligente e divisivo, sempre con uno stile comunitario e finalità chiare, coinvolse la gente, operai e giovani in esperienze di fede fuori dai cerchi magici.

La fabbrica, il lavoro manuale (fece carriera, punito a lavare cessi in fabbrica), il sindacato, la Camminare insieme, la GIOC giovani e adulti, i preti operai nazionali, europei e internazionali, il Centro Studi Bruno Longo sono la memoria di un tempo ingombrante, doloroso e pagato a caro prezzo… per molti lontano, ideologico e passato. Per me sono volti e nomi, un archivio da aprire e conservare perché in esso non c’è un linguaggio retorico, liturgico e stantio, ma sacro come la vita e il lavoro delle donne e degli uomini. Non ci sono i monumenti sui piedestalli o le visibilità cercate e ostentate, ma il racconto di vite e di situazioni sempre nuove di lavoro e non lavoro, di migrazioni con accoglienze o respingimenti: questi temi hanno accompagnato i molti nostri incontri di PO nella mansarda di don Carlo in via Belfiore a Torino.

La Revisione di vita a partire da Nazareth e la riscoperta della Incarnazione, l’esperienza della vita povera, Voillaume, Charles de Foucault, p. Chevrier, Carlo Carretto, la preghiera, la solitudine e il deserto sono stati i criteri di lettura dei grandi avvenimenti sociali, della trasformazione del lavoro, dei percorsi di liberazione e di presa di coscienza dallo stare “con” a diventare “come loro”. Senza abbandonare la stola, prendendo totale dimestichezza con il grembiule, nel leggere i segni dei tempi e archiviarne con cura le tappe dei percorsi.

Ho condiviso con interesse la sua visione internazionale della cooperazione con la Associazione “Come noi”, con il sostegno economico a numerosi progetti e alle persone che avevano a cuore questi cammini di liberazione. Bella e profonda la amicizia di Carlo, prete operaio con Sergio prete contadino in Brasile. In questo modo manifestava che cosa significhi essere evangelizzati dalla fabbrica e dalla fraternità.

Camminare libero, camminare con gli altri, povero nel vivere e nell’abitare. La sua testimonianza in questo stile di vita contagiosa nel suo quartiere – San Salvario: visitare persone invisibili, accogliere persone impresentabili, disturbare la coscienza dei benpensanti e la quiete dei dogmi. Alla ricerca di soluzioni plurali. Nei locali di casa sua c’era posto soprattutto per “altri” in crisi di identità, in crisi esistenziale, in crisi affettiva, in crisi di ruolo… Molti preti e laici, credenti e non, cattolici, ortodossi e protestanti sono stati ospitati nella sua casa, accompagnati con un ascolto attento, stimolati da domande adatte a ricomporre in unità esistenze turbate, per ridare senso a servizi che si erano ridotti a mera osservanza di regole, con pazienza ridando protagonismo e responsabilità. Accompagnava queste persone con la preghiera per non perdere la dimensione del tempo e la pazienza della storia.

Alla fine della sua vita la “rapsodia del silenzio” con temi ricorrenti e variati, appena accennati, come domande misteriose che ci aiuteranno a ricomporre la sua e nostra vita in ascolto della realtà, delle persone, dei popoli: Esperienza rara e difficile, in lui non negoziabile.

La “comunicazione” con le fasce popolari impoverite è di grande importanza, ha fatto parte della nostra costante ricerca. Ci ha permesso di aver sempre chiaro chi sono i vinti e chi i vincitori, di individuare meglio le “menzogne” con cui vengono mascherate queste “precarietà”. “Camminare insieme”, la sua passione.

Gino Chiesa 


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