La terza relazione



CON QUALE CRISTIANESIMO

Convegno nazionale / 18 sett. 2021 / Bergamo

Cari amici,
vi metto qui davanti tutti i numeri di PRETIOPERAI! Uno sopra l’altro, perfettamente allineati, sono un metro, più o meno di scritti!

I nostri scritti… nostri! E, fin da subito (Pretioperai nasce nel 1987, don Sirio Politi muore all’inizio del 1988) segnati da memorie divenute croci sulla strada, a volte anche solo appena tracciata, di uomini che hanno vissuto con profonda convinzione almeno due svolte risultate determinanti nella vita: l’esser diventati preti e l’ingresso nella condizione operaia.

Il fatto che, a distanza di tanti anni – notava Roberto Fiorini nella relazione introduttiva di uno dei nostri convegni a Salsomaggiore degli anni ’80 del secolo scorso – ci troviamo qui, indica quanto l’una e l’altra siano state cariche di futuro.
Credo che lo possiamo ripetere anche qui, oggi, dopo altri trent’anni. Anche questo nostro ritrovarci qui, appena la pandemia ce ne ha data la possibilità, ha la sua carica di futuro!

Ci siamo resi conto che scrivere è un lavoro duro, quando le parole non sono chiacchiere. Aggiungere parola a parola, non per il gusto di raccontarsi, ma per un semplice, profondo amore alla verità da servire umilmente e incondizionatamente, è un duro esercizio ascetico.

Rara è la coincidenza – scriveva ancora Roberto Fiorini su PRETIOPERAI – tra quello che si vive e la parola che lo esprima. E del resto a ciascuno di noi è capitato di preferire, forse per anni, semplicemente vivere, affidando alla vita stessa il compito di essere parola.
Eppure, dopo quasi cinquant’anni che il filo rosso della scrittura e della pubblicazione non si interrompe, credo concordiamo sul fatto che l’originalità della proposta di Gianni Tognoni (“la tessitura dei nostri occhi”, nella parte finale del numero zero di PRETIOPERAI) in relazione al garantire un servizio di verità da parte di un possibile nodo pensante tutto calato nel “particolare” dell’esperienza del lavoro e di fede, non ha mai smesso di far emergere le domande radicali, le solidarietà necessarie, la profezia della quale anche i nostri giorni hanno bisogno.

Quale cristianesimo?

Sempre sfogliando PRETIOPERAI, trovo questa citazione di Benedetto Calati, monaco di grande e bello spessore:

“La narrazione evangelica si conclude con il grande sguardo profetico del capitolo 21 del vangelo di Giovanni. E’ il capitolo ecclesiale; sembra che la chiesa successivamente lo abbia aggiunto; è una riflessione sull’esigenza della chiesa… Pietro dovrà, nell’obbedienza all’amore, prendersi cura del gregge che è solo del Signore…
Ma c’è, in quel capitolo 21, il discepolo che Gesù amava, che non ha nome. Che ne sarà di lui?
E’ l’ultimo dialogo tra Pietro e Gesù… il vangelo di Gesù così si conclude. Abbiamo un vangelo che si conclude con questo grosso interrogativo. Questa è la profezia della chiesa… E’ importante che questo discepolo che rimane, non abbia il nome.
Quell’anonimo che Gesù amava, questo anonimato ci interpella personalmente, perché ciascuno di noi, ciascun uomo (donna) possa rispondere a questa testimonianza di amore universale, cosmica. Possa essere costruttore (costruttrice) di nuova storia.
Questo discepolo anonimo che rimane è la profezia che è di tutti, che non può essere monopolizzata da qualsiasi carisma o servizio istituzionale. C’è questo <che ti importa? Che importa a te?> E’ l’ultima parola che Gesù rivolge a Pietro nel momento in cui lo costituisce pastore. C’è questo discepolo che Gesù amava, che rimane; la cui legittimazione non dipende da alcuna istituzione.
Da lì il dono dello Spirito Santo, che il Signore Risorto ha diffuso sui credenti alla Parola. Cioè su ogni uomo che pratica la giustizia” (B. Calati, Storia e profezia, Bozze 5/6 1988, pp. 92-93).

Un cristianesimo che quindi sboccia dal basso, che partecipa alla sofferenza della vita e dell’umanità come l’anonimo che rimane con le donne sotto la croce, portando nel cuore il sogno della giustizia. Uomini e donne, nell’unico popolo che Dio fa nascere anche dalle pietre. Quel popolo le cui tracce abbiamo incontrato muovendoci fuori dei “sacri recinti”, fuori degli schemi pastorali, fuori da tutto ciò che è sembrato vero e giusto nell’impostare un regime di cristianità, ritornato ad essere – nonostante papa Francesco – il desiderio di normalità postpandemica di una forte quota della nostra chiesa italiana.

Uno tra tanti, Umberto Cirelli preteoperaio romano di cui la nostra rivista riporta – nel numero 129-130 di gennaio di questo anno – un commosso ricordo firmato dalla “Comunità di Passo Corese, le Betulle e gli altri compagni che ti hanno assiduamente frequentato e amato”.

Disegnando il suo percorso i firmatari hanno descritto uno dei tanti nostri percorsi di vita che ci hanno portato allo stile con cui ci incontriamo qui a Bergamo, ormai da diversi anni.

“Dicono di lui, che aveva capito subito da che parte stare: aveva scelto semplicemente la fabbrica e il movimento sindacale – diventando operaio e delegato sindacale della CGIL alla SIGMA TAU di Pomezia – e il territorio di periferia per testimoniare la sua fede. In quegli anni viveva nel quartiere Alessandrino con la mamma, per stare insieme ai giovani con la sua Gianna nell’esperienza del doposcuola di via Valmontone e del gruppo “La Base” nel quartiere di Centocelle.
Aveva scelto di non avere una parrocchia di riferimento, ma di puntare a quella rete di credenti, disobbedienti, laici, amici e non credenti che intorno a lui ed altri preti operai di quegli anni e suore operaie, preti e suore spretati, si ritrovarono in quel quadrante di città per vivere la fede dal basso, secondo lo spirito del Concilio Vaticano II e l’insegnamento di Gesù del “dove sono riuniti due o tre persone nel mio nome, io sono in mezzo a loro” del Vangelo di Matteo, che Umberto amava sempre ricordare.
Nasceva allora il desiderio di un altro mondo possibile e della salvaguardia del creato, che avesse al centro l’uomo e i suoi bisogni, anche nella preghiera di un dio uguale per tutti, credenti e non credenti, oltre i diversi nomi con cui le varie religioni lo appellano, attraverso il lavoro, la preghiera e la meditazione, le lotte operaie, l’impegno sociale e sindacale, il movimento per la pace e il disarmo, il sostegno per un consumo critico e per quanto è possibile libero dallo sfruttamento intensivo del lavoro di uomini e donne, sono stati gli elementi con cui Umberto ha impastato la sua vita e ha aiutato tutti noi a crescere e ad orientarci nella solitudine della vita.
Per anni abbiamo continuato a crescere, a sognare, a soffrire, a unirci, a pregare, a nascere, a morire, a cantare, a piangere, a condividere, a far festa, ad incontrarci nel nome di Gesù e a parlare – credenti e non credenti – di lotte operaie, di diritti umani, della vita”.

Andiamo avanti.
Anche noi qui presenti, ricordiamo le parole di Armido Rizzi al seminario di Verona sui ministeri, dopo aver seguito i nostri interventi di allora: “Gente che non dice ‘ho voglia di andare’, ma è andata. Sono narrazioni, non solo progetti di vita” (Bollettino di Collegamento dei PO 2/86, p. 30).

Non ci resta altro, davvero, che andare avanti.
Ma come? Non siamo, noi pretioperai, al capolinea?
Guardateci! Siamo uomini e donne.
Preti? Guardateci: nel modo con cui ci incontriamo, in cui preghiamo, in cui ci confrontiamo… Le nostre liturgie hanno bisogno di un tempio, di un ordine gerarchico, di una “dottrina” che autorizzi ogni gesto, ogni atto? Esse parlano per noi il linguaggio della vita sbriciolata di ogni giorno e, insieme, questa vita frammentaria lascia percepire la compiutezza di un progetto che ritroviamo, leggendo la vita vissuta nella Parola di Gesù nel Testamento di sempre.

Questo metro di spessore, ci ha portato fin qui. Non so quanto e se riusciremo ad aggiungervi altri centimetri. Quanti? Chissà…
Ma quello che importa è ascoltare ancora un passo delle riflessioni dei pretioperai lombardi sugli incontri regionali che facevamo un tempo. Il passo è del 1989:

  1. Ogni PO ha la sua identità.
    Tutti hanno diritto di essere accolti così come sono. Nel nostro ritrovarci dobbiamo accoglierci così, senza tante storie, garantendoci uno spazio in cui (almeno lì) la nostra identità viene riconosciuta, aiutata a svilupparsi un po’, anche nel confronto con le diverse identità altrui.
    Forti identità,
    identità umili,
    stanchezza e povertà,
    formano oggi il dato di questa unica esperienza di prete operaio, la cui base comune è la ricerca.
  2. Scoprire l’essenza delle parabole dei singoli.
    Occorre che ci aiutiamo a riscoprire ciascuno la parabola personale che, se non capisci, non capisci tutto il resto: “se non capite questa parabola, come potrete capire il rimanente?”.

 

LUIGI SONNENFELD


 

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