Frammenti di vita
Caro don Lorenzo…
è difficile rapportarsi con te. Anche per lettera. Anche a quarant’anni dalla tua morte. È difficile perché la tua è stata una vita “autorevole” e per questo ha creato un fossato fra te e i venditori di fumo, gli imbonitori, i superficiali, gli atei devoti, i borghesi, gli intellettuali, tutti coloro che usano il loro bagaglio culturale oltre che il loro conto in banca non per creare uguaglianza e instaurare giustizia ma tutt’al più per elargire elemosine.
Anche se in questi ultimi tempi c’è un pullulare di iniziative in ricordo della tua scomparsa, continui ad essere un evidente segno di divisione. E come potrebbe essere altrimenti, dopo che non hai perso occasione per proclamare il tuo “classismo ferreo, da far paura al più ortodosso dei comunisti”? (Esperienze pastorali, pag. 223).
Sto avvertendo uno strano montare di consensi nei tuoi confronti: intellettuali che partecipano ai dibattiti organizzati per commemorarti, ecclesiastici che ostinatamente vanno ripetendo il ritornello della tua obbedienza “senza se e senza ma” alla Chiesa. Probabilmente non ti conoscono oppure – come è successo anche con il Vangelo – si sono informati sul tuo conto solo per quanto gli torna comodo. Hanno dimenticato quanto hai scritto al tuo amico don Piero: «Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti”.
E non credo che avresti cambiato opinione nei confronti della Chiesa del 2008, della Chiesa di Ratzinger, di Ruini, di Bagnasco. A proposito di quest’ultimo, chissà se avrà letto la tua lettera ai cappellani militari, lui che è stato generale di corpo d’armata, capo di tutti i cappellani militari? Chissà se sarà d’accordo con te, ora che è stato chiamato a guidare la Chiesa della patria Italia, quando dici ai suoi colleghi cappellani che tu “non hai patria” e che “reclami il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro”?
Ma veniamo ai giorni nostri.
Cosa avresti da dire a questa nostra parte di umanità succube alle logiche di potere, disamorata della politica, ben nutrita, ma senza gioia? So che non sopportavi la società neoliberista che definivi consumistica e “in balia delle mode”. Di qui il tuo classismo estremo: “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali tra disuguali”, che spronava alla condivisione delle risorse. “Questa società costruirà bisogni all’infinito”, dicevi spesso ai tuoi allievi.
Oggi l’economia ha messo radici che abbracciano il mondo intero. Sono le sue idee a governare la Terra. Abbiamo rimosso e ucciso di nuovo il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ma anche di Gesù, di Francesco, di Celestino V, di Oscar Romero, il Dio dei poveri, e lo abbiamo sostituito con il dio mercato.
Un processo di resistenza è possibile solo con un radicale cambiamento di vita, partendo dal basso, perché abbiamo capito che i Pierini e i Gianni di Lettera a una professoressa sono sulla stessa barca. Molti politici vedono nella guerra la soluzione ai problemi planetari: tu non hai mai sentito parlare di “guerra perenne e preventiva”! Nel 1965, scrivendo ai giudici del Tribunale di Roma, dicevi: “Le uniche armi che io approvo sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. Oggi queste due armi sono alquanto spuntate. In una società globalizzata la nuova forma di lotta nonviolenta consiste in un modo diverso di vivere, produrre e consumare. Grazie per la tua analisi e per i tuoi accenni “terapeutici” anche se, a dirti il vero, queste direttive – al posto di tante altre emanate e imposte ogni giorno – me le aspetterei dalla mia Chiesa. Oggi più che ai tuoi tempi.
Pasquale Iannamorelli