Memorie vive (2)


 

Questo anno, alla Chiesetta del Porto di Viareggio, sul filo di una memoria che sembra ancora incredibilmente viva, l’attenzione è appuntata sul centenario della nascita di don Sirio Politi che ha trascorso in questo luogo – appartato e insieme crocevia di tante avventure – la gran parte della sua vita di prete operaio, lottatore, poeta, artigiano, scrittore, vivido pensatore.

“La sua opera più geniale è stata la sua stessa vita, quel uomo nuovo che periodicamente nasceva e rinasceva, grazie al suo raro dono di integrare fra loro gli opposti: spirito e materia, uomo e donna, persona e natura, amore e lotta, normalità e disabilità, sacerdozio e laicità, salute e malattia.
Di qui il suo essere infaticabile uomo di frontiera, capace di ripartire dopo ogni tappa ad esplorare nuovi orizzonti, l’ultimo dei quali lo ha condotto al grande viaggio verso il mondo dell’aldilà”.

Così, Maria Grazia Galimberti ha iniziato il racconto della vita di Sirio (Una vita tra lavoro e profezia) davanti a una folla che ha gremito la grande sala della Croce Verde a Viareggio, alla fine di gennaio, e che ha seguito per quasi due ore in commosso silenzio quella storia che si è così tanto intrecciata con la storia di tanti.

Sirio è nato il 1 febbraio 1920 a Capezzano Pianore, un paese al piede delle colline che precedono la corona delle Alpi Apuane, a pochi chilometri dal mare. In una casetta proprio di fianco alla chiesa, separata dalla Provinciale che corre lungo il paese.

Nella chiesa parrocchiale, abbiamo celebrato la messa vespertina il 1° febbraio 2020, nella memoria di lui, insieme al giovane parroco, a don Pietro di cui fu punto di riferimento negli anni giovanili, al parroco di Bicchio, luogo della giovane comunità che partì da Sirio insieme a Rolando Menesini, Maria Grazia e che comprese anche me alla fine degli anni ‘60, ad Andrea, prete al lavoro in una delle tante serre per fiori e ortaggi che circondano Viareggio.
E tanta gente, a riempire tutte le panche, nonostante Sirio avesse lasciato il paese per il seminario diocesano quando i partecipanti di quella sera non erano ancora nati.

La liturgia della festa della Candelora apre alla luce, alla speranza, alla salvezza. Nella profezia di Malachìa – la prima lettura – la storia oscura dell’umanità si squarcia e Gesù appare come luce che porta Dio agli umani e gli umani a Dio.

Come dice la lettera agli Ebrei – seconda lettura -, Egli non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo. Si prende cura, cioé, di noi umani così come siamo, nelle nostre fragilità che ci spingono a gestire il potere a nostro vantaggio, e così il denaro e così ogni esperienza di amore. Prigionieri dei nostri egoismi e delle nostre paure, schiavi per timore della morte.

Lo sguardo profetico di Simeone si proietta nel futuro e i suoi occhi scrutano la pienezza del tempo:

“Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”.

Don Sirio Politi, figlio di questa terra, nato giusto cento anni fa proprio qui, di fronte alla chiesa, dalla bella collina di Bargecchia che lo vide, giovane prete, misurarsi con l’immensità del mistero di Dio e la precarietà di tanta esistenza umana, un giorno ormai lontano – con il permesso del suo vecchio vescovo monsignor Torrini – iniziò una discesa che lo portò ad essere non solo accolto, ma anche adottato da tutta la gente che lavora con la fatica delle braccia. Il giorno del suo funerale, sulle banchine del porto, si radunò una folla di uomini e donne portando un cartello significativo: “Sirio! Sei stato il più operaio di noi”.

“Solo – egli scrisse all’inizio della sua avventura – mettendoci sulla strada con umiltà e semplicità, senza bastone, né bisaccia, né pane, né argento e nemmeno due tuniche, dentro la moltitudine umana, diventiamo poveri anche noi, disorientati e smarriti come tutti. Allora, offrendo tutto, possiamo vivere insieme agli altri con sincerità” (dalla prefazione di Una zolla di terra).

E don Sirio, andando a vivere e lavorare nella Darsena di Viareggio, la cercherà sempre questa sincerità di vita. Insieme ai compagni preti operai in Italia e nel mondo è sceso in basso, dove più giù non era possibile, là dove vivono i poveri. E là ha scoperto che i poveri sono il cuore del mondo e il suo motore. Anche oggi, – se siamo sinceri – dobbiamo ammettere che il mondo va avanti sulla pelle della povera gente.

In questa sostanziale ingiustizia della storia umana che appare ai più insanabile provocando la rassegnazione dei molti di fronte all’egoismo, alla violenza, alla corruzione, al male, don Sirio mette, al centro della sua vita, la convinzione di portare l’idea di Dio dentro la fatica e la lotta di uomini e donne per una umanità nuova. E che questa umanità nuova sarà Dio e l’uomo, insieme.
Una umanità – questa umanità di comunione tra Dio e l’uomo – finalmente capace di fondare la vita nella giustizia.

Con questa convinzione don Sirio sente di essere – nella fragilità della sua testimonianza personale e nella sofferenza degli ultimi anni di vita debilitata da una malattia che finisce di schiantarlo – di essere e di sentirsi profondamente cristiano.

Questo l’”antico sogno nuovo” ripreso ad ogni svolta della sua vita e che è rintracciabile nei suoi scritti dove puntualmente si ripresenta, a partire dall’ingenuo sogno dell’innamorato che – arrivato nella Darsena operaia degli anni ‘50 – si mette alla ricerca di un barcone in disarmo dove ricavare una stanzetta per sé e una minuscola cappella per Gesù.
E che trova poi la sua realizzazione nella chiesetta del porto, dove la cappella ha il posto centrale e accanto – quasi appoggiata – una stanzetta per lui. Nella solitudine aspra dei primi anni, in un ambiente – quello operaio – sconcertato da una presenza tanto diversa come quella di un prete, fuoriuscito dalla sacrestia. Anni in cui Sirio afferma di non sapere più se Gesù sia ospite suo o lui ospite di Gesù.

Quando, sulle timide concrete aperture del Vaticano II, si cominciano a contare, in Italia, a decine fino a qualche centinaio i preti che entrano nel mondo del lavoro dalla porta di servizio, Sirio non è più solo.

Eppure la Chiesa non cambia di una virgola il suo atteggiamento e Sirio ne è pienamente consapevole. Scrive sul suo giornalino, nell’arco di due anni, sei lettere “Alla Santa Madre Chiesa”, ma è come un unico grido di dolore, che

“questa paura, da parte della Chiesa, del mondo operaio, il tuo giudizio così pesante e la tua respinta, dall’impegno sacerdotale dei tuoi preti, del lavoro di fabbrica come incompatibile per il ministero sacerdotale, quasi fosse una dissacrazione, un decadere da una dignità, un perdere possibilità di piena e totale dedizione al cosiddetto bene delle anime, questo tuo modo di pensare, santa Madre Chiesa, e il tuo conseguente comportamento non possono non insinuare il terribile sospetto che quasi tu abbia orrore dei poveri, quasi una strana vergogna di essere anche tu povera, livellata alla condizione di chi non ha nulla, rivestita soltanto dei poveri stracci di un quotidiano faticoso e squallido, del guadagnarsi il pezzo di pane col famoso sudore della fronte… Mi convinco sempre più, cara santa Madre Chiesa, che la povertà (povertà nel senso pieno, evangelico, della parola) la consideri come una condizione assurda, quasi come una disgrazia, dalla quale è bene tirarsi fuori a costo di tutto, anche a costo di lasciare andare per la sua strada Gesù Cristo e per la loro strada i poveri, gli operai, gli oppressi, gli sfruttati e tu, santa Madre Chiesa, andare per un’altra, quella sulla quale tiri avanti ormai da secoli e secoli… E questa respinta,lo sai bene, è perché questi preti operai, prima di rendere te presente e viva nel mondo del lavoro, vorrebbero che finalmente cominciasse a poter essere presente in te, in tutto il tuo essere Chiesa, realtà di Dio e dell’uomo in Cristo, la classe operaia, con tutta la sua problematica, le sue rivendicazioni, la sua ricerca di libertà, di uguaglianza, di giustizia: dovresti accettare di essere evangelizzata prima di evangelizzare”. (Lotta come Amore, Febbraio 1975, pag. 5).

Accettare di essere evangelizzata… la Chiesa, quando mai?!
Ancora oggi – e son passati quasi cinquant’anni da quando Sirio scriveva quelle righe – la Chiesa (perlomeno la Chiesa che conosco ed è quella italiana e poco più) rifiuta di essere evangelizzata e presume di dover solo evangelizzare, dando per scontato di possedere in esclusiva il mistero di Dio.

Son passati pochi giorni dalla celebrazione della festa immessa da Papa Francesco nella liturgia, la Domenica della Parola di Dio. Ho assistito alla più banale adesione a questa iniziativa del Papa: obbedienza formale, nulla più. E quindi, intronizzazione di una bibbia o di un lezionario portato sull’altare, incensato e lasciato lì, come un santo da estrarre una volta l’anno dalla sua nicchia per assicurarsi che vi ritorni nella sua inalterata inutilità. Perché la Parola di Dio è assolutamente legata al carro della chiesa gerarchica e, come recita un popolare proverbio marchigiano, “l’osso al cane ‘un gli si leva!”. Ben altro l’intento di Papa Francesco, ma ormai i “leoni da tastiera” della gerarchia del bel paese hanno imparato ciò che peraltro praticano da secoli per disinnescare e addomesticare la “spada del vangelo”, come dimostra peraltro lo stravolgimento folkloristico, da fiera paesana, delle varie manifestazioni promosse dal clero sotto l’etichetta di “chiesa in uscita”.

Chiesa alla ricerca di un potere perduto, dilapidato scendendo – a volte a precipizio – le scale della considerazione sociale, senza ascoltare, senza il minimo accenno di voler capire che i tempi mutano i rapporti di forza, anche i più sacri, a partire da quelli che si rivestono di eternità. Senza fiducia nell’ascolto della vita della gente che è considerata solo come “recipiente” da riempire con l’acqua santa dell’autorità, di nuovo imposta come valore contro ogni distorsione, anche solo paventata, di supposto soggettivismo.

Rimane sostanzialmente intatta oggi l’utopia che Sirio riversa nel suo ultimo libro, quel “Antico sogno nuovo” edito da Gribaudi nel 1983 e subito tolto dalle librerie perché la profezia è da sempre perseguitata come fumo negli occhi dai ministri che presiedono la religione, come le guardie il sepolcro di Gesù.

“La comunità (quella comunità sognata da Sirio) è sempre più a conoscenza che il sedersi intorno a questa tavola non è per celebrare una liturgia, vivere un rito, realizzare un culto o tanto meno ottemperare a un precetto: è uscire da se stessi per una liberazione fatta di rottura, più irrimediabile che sia possibile, come rompere un vaso costruito ogni giorno dove riporre gelosamente i nostri egoismi, e gettarne via i cocci. E’ fare spazio libero e aperto a Dio che viene per raccoglierne l’infinito mistero e lasciarsene sopraffare perché insieme a lui è l’umanità che viene: quella realtà umana che abita vicino a casa, che lotta nella fabbrica, subisce violenza in carcere,è sfruttata sulla strada, oggetto di speculazione nella scuola, in ospedale…
Perché la Fede è conoscenza e adorazione di Dio sul monte della visione, ma poi è scendere e scontrarsi col vitello d’oro. E scelta cristiana è trasfigurazione nella gloria, in rapimento estatico dove il volto è radioso di luce e le vesti candide come neve, ma sul sentiero della vita è parlare di lotta contro nemici implacabili e di passione, di morte e di resurrezione. La notte a gridare al Padre l’implorazione alla misericordia e durante il giorno è dovere scendere con parole di fuoco in mezzo alla folla a creare libertà, a sconvolgere i piani del potere, a far palpitare di speranza il cuore dei poveri, illuminare chi è cieco, liberare chi è lebbroso, far camminare diritto chi zoppica o è paralizzato.
E così fino alla croce”.
(Antico sogno nuovo, Gribaudi editore, pag. 24).

Quella croce di cui continuano ad avere paura i custodi della Chiesa; la stessa paura degli apostoli che fuggono e lasciano alle donne e ai giovanetti il compito della pietà.

Luigi Sonnenfeld


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