Ricordiamo Beppe Giordano (2)


 

Mantova 30 gennaio 2013

Alcuni pensieri dopo la giornata di ieri.
Siamo partiti presto con Gianni per Lucca dove Beppe sta finendo i suoi giorni. In auto fino a Cremona e da qui in treno  per  Viareggio dove abita Luigi  nella casetta di Sirio con la cappellina dove lui è sepolto.
Dopo un viaggio avventuroso (sciopero dei ferrovieri toscani, fermi a Fidenza senza informazioni, poi è arrivato un pullman che ci ha portato a destinazione, con quasi quattro ore di ritardo) verso le 15 Luigi è venuto a prenderci in macchina. Ci ha portato a casa di Maria Grazia che ci aveva preparato una buona zuppa di lenticchie  e un gelato davvero ottimo. Poi tutti insieme in due macchine siamo partiti per  Lucca. Beppe è ricoverato all’Hospice costruito nel parco del vecchio manicomio dove è nato. Suo padre ne era direttore. In concreto, morirà proprio nel luogo dov’è nato.
Luigi va in avanscoperta per vedere com’ è la situazione di Beppe e annuncia la nostra presenza.
Entriamo. Ci aspettava. Sorrideva con occhi splendidi. Accosto il mio capo al suo, come ho fatto  con mio papà nell’ultimo saluto. Ho represso un singhiozzo. Sono rimasto così qualche istante. L’ho accarezzato e poi ho lasciato il posto a Gianni.  Mentre mi ritiravo mi ha strizzato l’occhio, ad indicare un’intesa profonda.
Poi Gianni, poi anche Maria Grazia.
Sono tornato da Lui e ha cominciato a parlare. “Sono felice” è stata la parola che meglio ho percepito. E lo era davvero. Gli occhi risplendevano e sono rimasti ridenti per tutto il tempo.
Ha detto che  vorrebbe indossare una tuta, di qualunque colore. Si riferiva alla tuta di lavoro.
In me e Gianni vedeva che erano con lui i preti operai, tutta la lunga storia vissuta insieme.
Luigi non si aspettava che parlasse tanto. Così , ci ha fatto cenno di chiudere perché temeva che l’emozione fosse troppo forte per Beppe. Forse avrebbe voluto ancora parlare, aveva altre cose da comunicarci.  Però l’accordo con Luigi era che lui ci avrebbe indicato i tempi …
Maria Grazia ci porta alla stazione per il ritorno, invece Luigi rimane ancora con Beppe. Mentre attendevamo il treno per Cremona, mi giunge un SMS di Luigi:
“Beppe mi ha detto di portarvi a cena… Lo farò”
Ho risposto: “Dì a Beppe che in quella cena ci sarà un posto anche per lui”


 

L’ultimo saluto dei pretioperai davanti alla sua gente


“Voglio essere seppellito con una tuta da lavoro (bianca o marrone, fate voi): perché è nella storia
dei preti operai che io mi riconosco”.
Dinanzi alla sua bara era esposta quest’ultima sua parola. La storia dei preti operai nella sua radice ultima è storia di Evangelo. È una parabola vivente sbocciata in Europa, durante la guerra in Francia, dagli anni ’50 e nel post-concilio in Italia e in altri paesi del continente.
Per molti preti la scelta ha significato un’esegesi del Vaticano II, una via per seguire l’itinerario di Gesù come appare nei Vangeli. Parabole viventi che incarnavano un canovaccio comune, ma interpretato da ciascuno nelle condizioni concrete e nel territorio dove si è trovato a vivere.
Ascoltiamo la parabola di Beppe.
Prete da quattro anni e operaio in fabbrica da uno, scriveva nel 1971 su «La voce dei poveri»:

«Lavoro in un’officina meccanica; tra il ronzio delle saldatrici, il lamento del seghetto, l’urlo della troncatrice e tutti gli altri rumori delle macchine che lavorano il ferro, dove passo buona parte della mia giornata […]. Il mio essere prete è conosciuto da tutti e non mi ha mai fatto ostacolo».

Ed ecco il punto luminoso:

«Debbo dire che non ho ancora incontrato nessuno che mi abbia rifiutato come persona, che mi abbia chiuso la porta… Questa penso che sia autentica grazia di Dio e autentica disponibilità di fondo degli uomini e che è proprio compito mio di prete di raccogliere tutto ciò e di viverlo a fondo e farlo venire a confronto, per realizzare quel dialogo che manca, perché tutto e tutti possano ritrovarsi in un luogo che Dio ha scelto e voluto perché in esso tutto si ritrovi nell’unità dell’amore: e quel luogo sono io… e lo sono nell’officina, all’altare, nel dolore e nella gioia, nella solitudine e nella comunità».

Attorno al 2000 per alcuni anni siamo venuti a Viareggio per gli incontri nazionali dei preti operai.
Era Beppe che preparava il cenone finale, aperto anche agli amici viareggini. Dalla bontà delle cose imbandite traspariva tutta la cura, e quindi il cuore, che metteva in questa condivisione.
Due anni fa, al nostro convegno, ci ha raccontato la sua vita nel carcere di Lucca.

«Io ho rapporti con tutti. Con un certo orgoglio dico che l’anno scorso ho avuto su domanda dei detenuti 2374 colloqui. Vengono tutti […] Non è facile; soprattutto metterli in relazione con il dato religioso che stimo essere mio compito. C’è un.. 55% di detenuti di fede islamica. Sono contenti, in generale, e ritornano al colloquio ringraziando».

Con don Gianni ho incontrato Beppe malato all’hospice. Ci aspettava. Sorrideva con occhi splendidi.
Mi ha strizzato l’occhio, a indicare un’intesa profonda. «Sono felice», ci ha detto.
E lo era davvero. Gli occhi risplendevano e sono rimasti ridenti per tutto il tempo.
Poi ha manifestato la sua volontà di indossare la tuta da lavoro. In me e Gianni vedeva che erano con lui i preti operai, la lunga storia vissuta insieme.
Non dimenticherò mai quel sorriso e quegli occhi e il suo «sono felice»: sigillo di una vita.

Roberto Fiorini


 

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