Vangelo nel tempo
I discorsi particolarmente “osceni” per l’oggi sono quelli che ruotano attorno alla speranza.
Remo Bodei, presentando la traduzione italiana de “Il Principio Speranza” di Ernst Bloch (Garzanti, Milano 1994), parlava di un momento storico in cui “le quotazioni del ‘principio speranza’ e dei connessi ideali di utopia si approssimano a zero”. Dopo il crollo dei regimi cosiddetti comunisti gli intellettuali all’unisono hanno decretato il completo esaurimento delle promesse racchiuse nelle “grandi parole d’ordine”, invitando ad aspirare ai carismi più bassi della modestia, della prudenza, del calcolo ponderato delle conseguenze (inviti, per altro, perentori, poco modesti!). Ma, come suggerisce Bodei, “non abbiamo forse sin troppo abbassato lo sguardo, confondendo, più banalmente, la caduta di alcuni idoli con la fine degli ideali?”. Non occorre forse, in questo contesto, un riesame dei percorsi della speranza?
Tre testi editi quest’anno si prestano per operare questo riesame a partire da una categoria della speranza decisiva nella storia dell’Occidente: il messianismo.
Di esso il libro di David Banon (Il messianismo, Giuntina, Firenze 2000) ricostruisce la parabola storica delineatasi in territorio ebraico: dal messianismo antico sorto al tempo dei profeti d’Israele, ridimensionato dai Farisei in polemica anticristiana; al messianismo razionalista di Maimonide in cui ogni elemento apocalittico viene eliminato e la redenzione diventa sinonimo di vittoria della ragione sull’ignoranza; al messianismo politico dopo l’espulsione degli ebrei dalla Spagna (1492); al messianismo mistico al tempo in cui “il mondo razionalista dei filosofi ebrei medievali si sgretolò a causa della brutalità delle persecuzioni e delle espulsioni e la Cabbalà restò l’unica forza capace di rinnovare la dottrina ebraica” (63); al messianismo secolarizzato dell’emancipazione illuminista e del sionismo; fino agli ultimi soprassalti messianici di alcuni gruppi ultra-ortodossi in terra d’Israele.
Per un ebreo la speranza messianica non può essere solo interiore: deve modificare il corso della storia. Il messianismo spesso nasce da una frustrazione storica. Compare nella coscienza collettiva come la riparazione di una perdita, come la promessa utopica destinata a compensare l’infelicità del presente” (p.11).
E tuttavia, secondo l’autore, il messianismo è destinato allo scacco “perché nella sua essenza è aspirazione all’impossibile” (id.).
Y. Leibovitz scriveva: la redenzione promessa alla fine dei tempi sottintende una realtà che si concepisce solo come l’epilogo dei giorni, ossia una realtà che è sempre al di là di ciò che esiste, che non può dunque essere mai raggiunta. Ma l’uomo deve ispirarvisi continuamente. Il Messia è sempre colui che deve venire un giorno … e colui che viene veramente non può essere che un falso messia” (cit. a pag. 12).
Dunque da una parte il recupero del messianico contro quel pragmatismo politico e organizzativo che sembrano prevalere oggi (p.124); dall’altra il sospetto nei confronti di ogni effervescenza messianica letta come pseudo-messianismo.
Il secondo testo è una serie di lezioni di Giorgio Agamben sulle lettere di Paolo, interpretate come testo messianico fondamentale dell’Occidente (Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, Torino 2000) . Anch’esso si pone come riesame della categoria in questione: “che cos’è la vita messianica? E qual è la struttura del tempo messianico?” (p.24). Decisivo è il testo di 1Cor. 7, in particolare i vv. 29-32:
“questo poi dico, fratelli, il tempo si è contratto; il resto è affinché gli aventi donna come non [hos me] aventi siano e i piangenti come non piangenti e gli aventi gioia come non aventi gioia e i compranti come non possedenti e gli usanti il mondo come non abusanti. Passa infatti la figura di questo mondo. Voglio che siate senza cura”.
Secondo il nostro autore il “come non” rappresenta “la formula della vita messianica” (p.29). La vocazione messianica non costituisce un’identità quanto piuttosto una tensione all’interno della propria condizione, una revocazione di ogni vocazione.
Contro tutta una tradizione che ha appiattito il messianico sull’escatologico, Agamben ne parla come “relazione di ogni istante col messia” e non come “il risultato ultimo di un processo globale” (p.96): “ogni tempo è l’ora messianico ed il messianico non è la fine cronologica del tempo, ma il presente come esigenza di compimento” (p.76). Il messianismo non è la descrizione dello scenario redento, la visione dei “cieli nuovi e nuova terra”: “il soggetto messianico non contempla il mondo come se fosse salvo. Piuttosto — nelle parole di Benjamin — contempla la salvezza solo mentre si perde nell’insalvabile” (p.45).
Nessuna fuga dalla storia: né estatica né ideologica. Il soggetto messianico sta all’interno di essa, ma come “dislocato”, bruciato dalla tensione verso la redenzione; cammina sulle strade del mondo “come se non” fosse la sua vera patria (qualcosa di simile dice anche l’autore della lettera a Diogneto).
Il terzo testo è un’introduzione alla tradizione ebraica, scritta da Marc Alain Ouaknin (Il libro bruciato, ECIG, Genova 2000). L’ebreo è presentato come un essere messianico, dove “il messianismo non è la certezza della venuta di un uomo che interrompa la storia, ma un modo di essere di ogni uomo nel suo inserirsi nel tempo. L’ebreo non è nel tempo, crea il tempo. In questa temporalità messianica tutto avviene come se il mondo esistesse e al tempo stesso non esistesse, continuando a sottrarsi, ri-creando ogni istante” (p.115).
Il soggetto messianico è un essere interrogante che diffida della parola di risposta data dall’istituzione: la risposta è la maledizione della domanda” (M. Blanchot). Nella tradizione messianica “si trasmette una capacità d’invenzione e non un senso” (p.371).
Qui il messianico più che essere legato all’utopia, sembra descrivere la condizione dell’atopia: “impossibilità di essere in un posto, impossibilità fondamentale di trovare una dimora” (p.201); “non dire mai che sei arrivato: sei ovunque un viaggiatore in transito” (E. Jabes).
Non c’è fine all’attesa del messia. Anzi: “il messia è fatto per non venire … e nondimeno è atteso (…). Essere nel tempo messianico e preservare la propria dimensione messianica, significa mettersi in sospeso, diventare domanda ed essere nell’impossibilità di dire l’ultima parola” (379s).
Un testo di Gershom Scholem riassume bene – mi sembra – questa comprensione del messianico:
“Vivere nella speranza è certamente qualcosa di grande, ma anche qualcosa di profondamente irreale. Vivere nella speranza toglie peso specifico alla persona, che non potrà mai realizzarsi perché lo scacco, la costante incompiutezza delle sue intraprese, svaluta proprio ciò che costituisce il suo valore centrale. L’idea messianica ha fatto della vita ebraica una vita in condizioni di rinvio, nella quale nulla può essere fatto e compiuto in forma definitiva. Si potrebbe dire che l’idea messianica è l’idea antiesistenzialistica per eccellenza. A ben intendere, quel concreto che potrebbe essere portato a pieno compimento da una natura non redenta, non esiste nemmeno. In tutto ciò sta indubbiamente la grandezza del messianismo, ma anche la sua costitutiva debolezza. La cosiddetta ‘esistenza’ ebraica implica in sé una tensione che in verità non può mai scaricarsi, un fuoco che arde, ma non si consuma. E ogni qualvolta, nella nostra storia, quella tensione si allenta, viene allora screditata o, più esattamente, smascherata come ‘pseudomessianismo’: una stolta espressione” (G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti 1986).
Un passo indietro rispetto all’istanza marxista di legare l’utopia astratta alla concretezza, di innervare la storia di dinamismo progettuale e di zavorrare l’utopia col piombo della condizione materiale? Per E. Bloch la forza del marxismo sta proprio nel miscelare la “corrente calda” delle aspirazioni umane con la “corrente fredda” del realismo e dell’analisi del presente. E tuttavia, lo stesso Bloch denuncia narrativamente lo scacco rispetto alle intenzioni: “si raccontava che un cane e un cavallo fossero diventati amici. Il cane metteva da parte le ossa migliori per il cavallo, e questi gli forniva le più fragranti balle di fieno. L’uno voleva fare del suo meglio per l’altro e finì che nessuno si saziò” (E. Bloch, Tracce, Coliseum, Milano 1989).
La tensione messianica non è insoddisfazione a buon mercato, cattivo idealismo che giustifica il disimpegno. Al contrario è fonte di passione storica che sa che “ogni sogno resta sogno perché troppo poco ancora gli è riuscito, si è compiuto. Perciò esso non può dimenticare ciò che resta, in tutte le cose mantiene le porte aperte” (E. Bloch, Il principio Speranza, cit. 390).
Kafka diceva: “il messia non arriva il giorno della sua venuta, ma soltanto il giorno dopo”!