Sguardi e voci dalla stiva: migranti


 

Quando il trentaduenne marocchino Abderazak, in preda alle coliche e ormai disidratato, è stato invitato a farsi portare in ospedale, dopo 28 giorni trascorsi dentro un balcone circolare largo 90 centimetri, a 40 metri da terra, è scoppiato a piangere: “Non voglio scendere! Io voglio morire quassù – ha detto al compagno di avventura italo-argentino Marcelo, rimasto con lui fino all’ultimo giorno di occupazione sulla torre di via Imbonati a Milano – Non voglio scendere, perché bisogna lasciare un segno, una macchia nera. Così chi guarderà questa torre si ricorderà che qui è morto qualcuno”.
Abderazak sapeva che, essendo irregolare, una volta a terra avrebbe rischiato l’espulsione dall’Italia: e così è stato. “Appena arrivato in ospedale, l’hanno dichiarato improvvisamente guarito – racconta Roberto Luzzi, del Comitato Immigrati di Milano – l’hanno portato nel Centro di Identificazione ed Espulsione di via Corelli, piantonato da quattro poliziotti. Poi l’hanno trasferito nel CIE di Modena, in isolamento, e subito dopo in Marocco. E’ stata una punizione esemplare a fini intimidatori, – sostiene Luzzi – compiuta violando tutte le procedure legali”.

Il 5 novembre 2010 Abderazak e Marcelo erano saliti sulla ciminiera della vecchia fabbrica “Carlo Erba” di via Imbonati, in zona Maciachini, insieme ad altri sei ragazzi nordafricani. Alcuni ragazzi sono scesi dopo pochi giorni, lasciando gli occupanti prima in cinque e poi in tre, mentre il ventitreenne egiziano è stato soccorso dai medici e portato in ospedale quattro giorni prima della discesa degli ultimi due, avvenuta il 2 dicembre.
Tutti senza permesso di soggiorno, a parte Marcelo che ha la cittadinanza italiana, hanno compiuto l’occupazione per protestare contro la sanatoria avviata nel settembre 2009 e finalizzata all’emersione di colf e badanti irregolari. La considerano una “sanatoria truffa” perché è stata pensata solo per la categoria dei lavoratori domestici e ha costretto molti immigrati, magari muratori o imbianchini, a partecipare affidandosi a un datore di lavoro fasullo, che spesso li ha ingannati avviando delle pratiche che sicuramente sarebbero state respinte, ma non prima di essersi intascato i soldi.
Come è successo a Khamis Moustafa, 32 anni, egiziano, in Italia da cinque anni, che ha sostenuto l’occupazione partecipando giorno e notte al presidio sotto la torre: “Lavoravo in nero come muratore e tramite un connazionale ho conosciuto un italiano che poi mi ha fregato – racconta – «Dammi tre mila euro, ti faccio lavorare come colf e sarai a posto», mi aveva detto. Ma in realtà ha dato dei documenti falsi, usando il nome di un morto. Quando se ne sono accorti, la pratica è stata annullata e i miei soldi persi per niente. Adesso cosa faccio?”. Alcuni truffatori, italiani e stranieri, hanno compilato decine di finte pratiche, intascandosi da 1500 a 8 mila euro per ogni immigrato, e lasciandoli poi con un pugno di mosche in mano.
E’ l’esperienza di Mohammed, 38 anni, marocchino in Italia da sei anni, che ha pagato 3 mila euro: chi gli ha fatto la domanda come datore di lavoro ha avviato altre sette pratiche, quando il limite consentito era al massimo due: inevitabile l’annullamento di tutte quante. “Quello che mi ha truffato, ne ha fatte addirittura 45 di pratiche – racconta Kamel, 37 anni, algerino – facendosi pagare 2500 euro a testa. Ha guadagnato più di 100 mila euro e noi siamo ancora nella situazione di prima”. Il problema è anche che gli immigrati non possono denunciare i truffatori, perché così facendo denuncerebbero pure la propria condizione di irregolari, che in Italia è reato. “La procedura era informatizzata, avrebbero potuto mettere un blocco; – sottolinea Luzzi – si tratta di un problema amministrativo che ha permesso ai truffatori di approfittarne.
Un finto datore di lavoro è persino riuscito ad avere le carte di identità delle persone ricoverate in una casa di riposo e ha avviato delle pratiche fasulle per ogni nominativo. Tra gli immigrati, invece, c’è chi ha venduto tutto quello che aveva per partecipare alla sanatoria. Dalla mucca nel suo paese a tutti i risparmi messi da parte in Italia. Un ragazzo, venuto da noi al Comitato Immigrati, ha venduto la casa in Egitto per fare questa pratica e ora si ritrova senza più nulla”.
La sanatoria, che ha visto presentate circa 300 mila domande, si porta dietro anche queste storie di inganni e speranze deluse. La lotta di via Imbonati riguarda però anche altre questioni irrisolte che interessano gli immigrati. Oltre a chiedere il rilascio del permesso di soggiorno per chi è stato respinto dalla sanatoria a causa di una truffa, vorrebbero il prolungamento del permesso per
chi ha perso il lavoro e non riesce a trovarlo; la regolarizzazione per chi denuncia il datore di lavoro in nero o lo sfruttamento; l’emanazione di una legge che garantisca il diritto di asilo; il riconoscimento del diritto di voto per chi vive in Italia da almeno 5 anni e della cittadinanza per chi nasce e cresce in Italia.
Se dal punto di vista delle concessioni per le quali si stanno battendo da mesi, anche con manifestazioni e cortei, non è stato ancora ottenuto nulla, il bilancio della protesta, secondo chi l’ha condotta, non è negativo. Per prima cosa, le pratiche di coloro che hanno partecipato al presidio sono state consegnate per il riesame, anche se con poca concreta speranza. Bisogna poi riconoscere una mobilitazione di immigrati inconsueta: sono riusciti ad organizzarsi e a gestire un presidio, smantellato a fine dicembre, che ha sostenuto quasi un mese di occupazione. Molti di loro, anche senza il permesso di soggiorno, hanno avuto il coraggio di fermarsi giorno e notte, dormendo in tende da campeggio, per supportare i loro connazionali sulla torre. La risposta del quartiere inoltre è stata buona: ci sono state reazioni infastidite, certo, ma anche tanta solidarietà di persone che portavano coperte e viveri. “La protesta in via Imbonati proseguirà, – spiega Luzzi – l’occupazione della ciminiera ha permesso di attivare l’attenzione, ora bisogna continuare a informare e creare presidi anche in altri quartieri, combattendo i pregiudizi e stimolando la partecipazione di tutti”.
Ma intanto Abderazak, come altri ragazzi a Brescia, ha pagato in prima persona le conseguenze della protesta. Per mantenerlo in Marocco, il Comitato Immigrati sta organizzando una raccolta fondi, e finora sono riusciti a mandargli 750 euro. Si sta anche cercando di farlo ritornare in Italia, denunciando l’illegalità del procedimento di espulsione con un ricorso per vie legali.
Anche per questo, quella torre ormai vuota in via Imbonati rimarrà per la città di Milano un simbolo. A morirci sopra non è stato Abderazak ma il suo sogno di potersi costruire un futuro in Italia. E il sogno di molti altri come lui: di Khamis, Mohammed, Kamel. Truffati dalla vita ma non ancora vinti. La torre di via Imbonati sarà la loro torre. Un “segno”, una “macchia nera”, sulle coscienze di tutti.

Jacopo Altobelli

jacopo.altobelli@gmail.com


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