Voci dalle tribù


 

In questo numero è la “tribù” di Sulmona, in Abruzzo, che racconta il suo quotidiano, snocciolato da oltre vent’anni di vita dura ma serena, difficile ma a tratti entusiasmante.
Una vita, d’altronde, come tutte le altre “tribù” di questo genere. Molte volte ci siamo detti che una vita così ai margini è possibile solo perché si ha la consapevolezza di viverla in sintonia con tanti altri marginalizzati.
Una “sinfonia dalla tribù” articolata in tre voci: la prima è la narrazione di un’attività di lavoro artigianale nel campo grafico-editoriale, condotta da un gruppetto di ostinati, convinti più che mai che le idee e i valori siano più importanti del denaro.
La seconda voce è quella di un giovane frate francescano che si è ritrovato in questo ambiente in cui la Chiesa è ferma agli anni ’50, con una carica interiore e una voglia di fare che vengono sistematicamente ostacolate se non proibite da “chierici” e “sagrestani”.
La terza voce è quella di una mamma di famiglia che, ostinatamente, cerca di ritagliare degli spazi di tempo da dedicare all’approfondimento di temi quali i rapporti Nord/Sud del mondo, consumo critico, commercio equo-solidale… e si propone, insieme con un gruppo nascente, di far passare questi germi all’interno del tessuto urbano di una cittadina sonnacchiosa e piccolo-borghese come Sulmona.


 

1. QUALE VITA SULLE MONTAGNE DI CELESTINO?

 

Sarà forse una coincidenza, ma mi trovo a scrivere queste note sulla nostra esperienza di “tribù” che si è incrociata con il vissuto dei PO, proprio nel momento in cui un crudele evento climatico potrebbe segnarne la fine.
E allora, al contrario di tutte le storie, partiamo proprio dagli ultimi avvenimenti, da quel 13 gennaio 2002 in cui un tubo dell’acqua non ha retto agli attacchi rabbiosi di un gelo durissimo e ostinato che ha stretto nella sua morsa l’Abruzzo intero. Da quel tubo, per un giorno e una notte è uscita in continuazione acqua che ha inondato tutte le stanze dei nostri laboratori. Ogni volta che ancora adesso, a oltre un mese da quel giorno infausto, entro in uno qualsiasi di quegli ambienti, mi sento come rigettare all’indietro dallo spettacolo deprimente di cartelle ricolme di carte premurosamente raccolte nel tempo, diventate come duri mattoni. Archivi di foto, documenti, ritagli di giornali, fatture, menabò, preventivi, ordini, listini, disegni, vignette, appunti, promemoria, pellicole e… libri, libri, libri resi inservibili da quell’indisturbato deposito di acqua.
Ma poi ti scatta dentro qualcosa di incomprensibile: bisogna comunque ricominciare, perché non vadano distrutte le fatiche, le lacrime, le gioie, le speranze, i semi lasciati lungo ventitré anni di lavoro.


L’ATTIVITÀ EDITORIALE: “QUALEVITA”

Cominciammo nel 1979, in questa casa di campagna semidistrutta che abbiamo rimesso in sesto e resa vivibile (nella sala dove ora c’è il laboratorio di serigrafia c’era uno strato di 5 cm. di letame di gallina).
Lì abbiamo organizzato le primissime riunioni di redazione del nostro bimestrale di informazione e riflessione nonviolenta “Qualevita”.
Dobbiamo andare a constatare – ci dicevamo – quale vita c’è nelle campagne (bisogna sempre partire dal proprio habitat), ma poi anche nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici, negli ospedali, nelle carceri, nelle sedi sindacali, nei partiti, nelle chiese, nei quartieri; quale vita si conduce da bambino, da donna, da giovane, da anziano, da disoccupato, da “diverso”, da emarginato.
La nostra attività editoriale ha avuto sempre come pungolo conduttore il desiderio di dare a questo lembo di Sud dell’Italia in cui viviamo la spinta perché esca dalle secche dell’assistenzialismo, del clientelismo e talvolta anche del vittimismo.

L’UTOPIA CONCRETA DELLA NONVIOLENZA

Un altro filo conduttore ha tenuto insieme in questi lunghi anni le nostre vite difficili in una realtà a tratti dura e impermeabile, in un ambiente in cui si respira aria di mafia senza lupara né tritolo, ma con tutte le limitazioni, le gabbie, i controlli sociali, i condizionamenti, gli schiaffi alla dignità cui sono sottoposti tanti nostri concittadini che vivono un po’ più a sud di noi.
Che cosa si fa in una realtà di questo genere? O ci si adegua e, inevitabilmente, si diventa un anello della catena di omertà, di sotterfugi, di furbizie, di piedistalli più o meno coscienti posti a sostegno dei vari poteri, oppure ci si ribella e si lotta. Noi abbiamo scelto la via della lotta nonviolenta. Tutte queste lotte hanno avuto come propulsore una scintilla di follia. Sono state iniziate e condotte a termine da un manipolo di folli o – come li chiamava Martin Luther King – di disadattati: “Invito tutti gli uomini e le donne di buona volontà ad essere dei disadattati, perché può ben darsi che la salvezza del nostro mondo stia proprio nelle mani dei disadattati”.
Che non sia proprio la “follia” uno degli elementi specifici che caratterizza le nostre “tribù” (spero proprio che tante, tante altre abbiano voglia di raccontarsi su queste pagine, per incoraggiarci a vicenda) in questi tempi difficili, tempi in cui pare che la violenza e la guerra abbiano preso il sopravvento? D’altronde siamo in buona compagnia. Anche di Gesù di Nazareth dicevano “è diventato pazzo” (Marco 3,21).
“Il problema vero – mi diceva don Sirio in quelle indimenticabili serate vissute nei pochi metri quadrati della sua casetta di Viareggio – il problema che decide della nostra sincerità di nonviolenti non è problema di essere pazzi, ma di non esserlo del tutto”.

VITE FUORI DAL CAMPO

Aveva ragione Ezechiele, quando aprì una breccia nelle mura di Gerusalemme, e l’aveva varcata, a significare che invano il popolo si sarebbe rinserrato in quelle mura e invano avrebbe cercato difese arroccandosi nei suoi spazi sacri: occorreva invece uscire dalla città, uscire dal tempio, e affrontare l’impatto con la realtà ignota e avversa.
Quando abbiamo cominciato ci trovavamo nel pieno degli anni di piombo: abbiamo ricevuto anche alcune visite di polizia e carabinieri con i mitra spianati. Il nostro reato era stato appunto l’esserci collocati “fuori dal campo”: fuori da ogni organizzazione partitica, anche se connotati politicamente, fuori da ogni chiesa, anche se tenacemente alla ricerca di un senso da dare alla nostra fede nel Dio che “ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili”, fuori da ogni combriccola di potere.
L’abbiamo pagata, e a caro prezzo, questa collocazione extramuraria, anche nella nostra attività lavorativa (mai un lavoro commissionato dalla curia di Sulmona o da altri centri istituzionali).
Ma in compenso, in questi oltre vent’anni, abbiamo gustato la visita, la presenza, l’amicizia di tantissime persone che con noi hanno diviso un pezzo di pane con un vasetto delle nostre marmellate ma, soprattutto, abbiamo vicendevolmente aperto le nostre menti e i nostri cuori ad un confronto serrato sulle linee di fondo che ci hanno portato a queste scelte, uscendone sempre rinfrancati, arricchiti e incoraggiati ad andare avanti.
Mediante il nostro piccolo foglio “Qualevita” (in questi giorni stiamo preparando il numero 100) restiamo in continuo contatto con tante realtà marginali come la nostra, sparse in Italia e nel mondo. Gruppi, associazioni, redazioni, biblioteche, centri alternativi, comunità, famiglie, persone singole sono entrate nelle nostre stanze, nelle nostre vite pur senza esserci mai incontrati; lettere, foglietti, documenti, cartoline, appelli, iniziative, seminari, conferenze, campi: sappiamo molto di quella parte di umanità che viene sistematicamente ignorata e che invece mantiene viva la fiammella della speranza.

NON FUGA, MA ASSUNZIONE DI RESPONSABILITÀ

«Le spoglie degli animali il cui sangue è offerto nel santuario per il perdono dei peccati, sono bruciate secondo la legge fuori dal campo. Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il suo sangue, patì fuori delle mura. Usciamo dunque fuori dal campo per andare a lui portando la sua vergogna» (Lettera agli Ebrei, 13, 11-13).
Chi decide di giocare la propria vita fuori dal campo perde le sicurezze ma non la speranza. Anzi, solo dove viene meno la sicurezza col suo orgoglio, la sua arroganza, la presunzione della propria giustizia, cade l’impedimento alla speranza, e la salvezza diventa possibile.

“Un po’ troppo tardi abbiamo imparato – diceva Bonhöffer – che non il pensiero ma l’assunzione della responsabilità è l’origine dell’azione”. E oggi, proprio perché siamo nel tempo della decisione, e tutti i diversivi e le proroghe sono finiti, ci troviamo nella condizione che egli ci aveva annunciato, dandone per primo la prova resistendo senza resa nel carcere nazista: “Per voi pensiero e azione entreranno in una relazione nuova. Penserete esclusivamente ciò di cui risponderete agendo”.
Ricominciare, per noi, in questo momento di buio pressoché totale, in Italia e in tante parti del mondo, in questo momento di “democratura” dilagante, ricominciare significa restare nella lotta.
Anche a Sulmona, accanto alle montagne dove Celestino V (Pietro da Morrone) ha maturato la sua distanza dal potere, anche in un laboratorio grafico devastato dall’acqua.

Pasquale Iannamorelli


 


2.
A SULMONA, IN SPIRITO DI SEMPLICITÀ FRANCESCANA

di fra Masseo o.f.m.

 

Ciao fratelli, compagni, compagne, il Signore vi dia pace!
Sono Masseo, un sacerdote francescano che da circa un anno è stato trasferito a Sulmona (AQ) per svolgere (almeno così doveva essere) il servizio di cappellano presso il carcere di massima sicurezza. Qui a Sulmona la mia vita è stata baciata dalla provvidenza quando, prima ancora di iniziare il servizio in carcere, ho incontrato lungo il mio sentiero il compagno e fratello Pasquale. Per me è stato come rinascere, come trovare un barlume di luce in una realtà ecclesiale che ha il sapore dello stantìo e sente, fa sentire e vive la pesantezza di un’animazione pastorale che sembra avere come obbiettivo unico quello di restare ancorati ad uno spirito di conservazione reazionaria.

Sono giunto a Sulmona dopo che il Signore, per circa sei anni, mi ha condotto al fianco di tanti fratelli e sorelle piagati dalle ferite della droga e dell’aids. Chiudendo gli occhi ne faccio memoria e il tam tam del mio cuore, sente l’eco della musicalità dei loro volti, delle loro storie, delle loro sofferenze e delle loro speranze… quanti giorni e quante notti a dormire o vegliare con loro nelle stazioni! Sono stato un uomo fortunato perché il Signore mi ha permesso di confrontarmi con la vita di coloro che sono il suo volto storico ancora tutto da contemplare, da adorare e da amare.
Noi francescani dovevamo aprire una comunità per tossicodipendenti in Abruzzo ma questo non è stato possibile a causa della paura: paura e ignoranza dell’Istituzione municipale del comune di Capestrano; paura, incapacità di amare e contemplare da parte dei frati del convento stesso, paura di tutti coloro che nell’assemblea comunale, anche se d’accordo, hanno taciuto!
Da quel momento in poi, eccomi a Sulmona dove, con un confratello di 86 anni, pieno di vitalità, ho iniziato il servizio con i detenuti nel super-carcere (durato solo otto mesi). Un mondo nuovo: tragico per le varie storie di violenza, disperazione, di omicidi, di nostalgie dei parenti e di tutto ciò che ha il sapore della libertà; ricco per le tante storie che si intersecano fra di loro dando vita ad un Vangelo nuovo, dove Gesù facendosi carcerato, ha preso il volto e le condanne di ognuno di loro. Chi nelle celebrazioni parla di questo Cristo? Chi annuncia il Cristo brigatista, omicida, stupratore, eppure: “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”? In quell’ero carcerato c’è ogni detenuto!
Questo lavoro mi permetteva di sperimentare la presenza confortante e rassicurante del Signore che parlava, che gridava come dall’alto della croce, ogni giorno, attraverso quelle storie, attraverso quella passione vivente che attende l’alba di una nuova resurrezione. Lì, in quel carcere, iniziavo a leggere e a comprendere le pagine più belle della teologia della liberazione. Sì, tutto ciò che in un modo un po’ alternativo avevo letto negli ultimi anni di studi affiancandolo al cosiddetto insegnamento ufficiale, ora, lì, ne capivo e ne sentivo la grandezza.
Ma una nuova obbedienza improvvisa, a partire da settembre, mi ha fatto lasciare, mio malgrado, il carcere per essere responsabile provinciale della pastorale giovanile francescana e assistente regionale dell’AGESCI. Ora incontro tanti giovani nelle scuole, nelle parrocchie, nei ritiri, nei campi scout e, soprattutto all’inizio, ho avuto difficoltà non tanto nel relazionarmi con loro quanto nel sapermi fermare per capire che in loro, nelle loro storie, Cristo parla ugualmente. Quanto lavoro c’è da fare! Ascoltare i loro vissuti, condividere i loro sogni riguardanti il loro futuro professionale e il loro essere cristiani oggi. Sognano, ed io con loro, una Chiesa (soprattutto qui a Sulmona) meno istituzionale, più vicina, più capace di indossare i panni della ferialità, di sporcarsi le mani, di parlare il loro linguaggio; che gli faccia vivere l’esperienza dell’incontro con Cristo non tanto dall’alto delle ormai superate scuole catechistiche quanto dalla vicinanza con le storie di tante realtà che ci mettono a confronto con il nostro credo e ci permettono di formare una coscienza critica e non sopita dai fumi oppiacei dell’incenso che svanisce e non lascia nulla come tante celebrazioni domenicali.
Ora ripongo momentaneamente il mio tam tam. Vi ringrazio per l’opportunità che mi avete dato di scrivere sulla vostra rivista che mi ha donato sempre molti spunti di riflessione per la mia crescita personale. Vista la mia età (33 anni) spesso qualche confratello mi dice di essere anacronistico per le mie idee e i miei discorsi circa alcuni aspetti del ministero sacerdotale e questo, paragonandomi proprio ai PO. Sinceramente non merito tanto! Ho sempre lavorato e continuo a lavorare con le mie mani e la mia testa sperando che il seme della vostra esperienza di tanti anni di lotta e condivisione con tanti compagni e tante compagne, possa continuare a trovare terreno fertile nella reale povertà della mia vita per germogliare e dare molti frutti anche dal sapore del sogno.
Vi abbraccio tutti anche se non vi conosco e spero che insieme a Pasquale potrò partecipare a qualche vostro incontro per conoscervi meglio. Come dico ogni tanto ai fratelli scouts: “I Care” e quindi lotta continua per fare le nostre piccole rivoluzioni! Niente male come sogno eh?


 


3. UNA CASA PER LA PACE A SULMONA

di Anna Sarno

 

Per anni e anni abbiamo bussato alle porte di tutte le istituzioni di Sulmona perché ci offrissero la possibilità di aprire un luogo di incontro, un luogo in cui si potesse leggere e discutere di pace, nonviolenza, qualità della vita, rapporti Nord/Sud del mondo, immigrazione, modelli di sviluppo…
Finalmente, alla vigilia dell’ultima tornata di elezioni amministrative comunali, la giunta uscente di centrosinistra ci ha concesso in affitto una stanza in cui dare inizio a questo microcosmo cittadino.
La Casa per la Pace intende promuovere a Sulmona e nel territorio Peligno la ricerca, l’educazione e l’azione sui temi della pace, dell’ambiente, dello sviluppo sostenibile, in una prospettiva nonviolenta.
Vuole essere un centro di incontro e di confronto di idee, ma soprattutto motore per piccoli interventi concreti nell’ambito territoriale e planetario.
• Costituzione di una biblioteca ed emeroteca “specializzata” su temi quali pace, nonviolenza, modello di sviluppo, ecologia, qualità della vita, Nord/Sud del mondo. I soci si impegnano a fornire libri (oltre 500 volumi) e riviste (circa 30 testate per varie annate) di loro proprietà.
• Organizzazione di incontri periodici con persone “specializzate” nelle stesse tematiche, non tanto per un approfondimento libresco ma per precise scelte di vita.
• Realizzazione “effettiva” di una “Banca del Tempo”, attraverso la quale si metta a disposizione di chi, in un determinato momento della sua vita ha bisogno di aiuto, anche una sola ora del proprio tempo, che poi verrà debitamente “restituito”.
• In collaborazione con organizzazioni di importazione diretta dal Terzo Mondo, apertura di un punto espositivo in cui sia possibile prendere visione di prodotti provenienti dai Paesi più svantaggiati sparsi nel mondo, senza sottostare al capestro delle multinazionali e dare così vita anche a Sulmona ad un allargamento di orizzonte attraverso la cooperazione equo-solidale. Questo, nella consapevolezza che l’“economia” è ormai centrale nella nostra vita personale e collettiva e non possiamo più lasciarla nelle mani di alcuni “esperti”.
• Costituzione di una rete di accoglienza contro il razzismo, per non trovarci impreparati di fronte al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e dell’integrazione interetnica.
Altre iniziative verranno di volta in volta vagliate, approvate e messe in atto dai soci riuniti in assemblea.
La parte operativa si avvarrà unicamente del contributo di volontari.

Lungo tutto l’anno 2002 abbiamo organizzato un percorso di dieci incontri «a scuola di pace in tempo di guerra». Incontri per capire il clima che stiamo vivendo dopo i tragici eventi dell’11 settembre 2001 e, soprattutto, per non continuare ad essere complici dei tanti motivi che li hanno causati.
1. Non c’è pace senza solidarietà
2. Dopo l’11 settembre, il mondo è veramente cambiato?
3. Fra terrorismo e guerra, ci sono alternative
4. Violenza e pace nelle religioni
5. Popoli sazi e popoli impoveriti
6. Immigrazione tra tolleranza e convivenza
7. Pace e diritti umani
8. Violenza e pace dalla e nella informazione
9. Se vuoi la pace… impara a rinunciare al petrolio
10. Un mondo diverso è in costruzione.
Ho descritto un filone di azione e riflessione della nostra “tribù”. È dura, come dappertutto d’altronde, far passare certi messaggi. Noi, se non altro, ci proviamo. È il minimo che si possa fare, se vogliamo continuare ad alimentare la speranza.


 

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