Voci dalle tribù


 

Il rapporto con la televisione, a partire dalla metà degli anni settanta, è diventato sempre più totalizzante fino a costituire un surrogato del sociale sostituendo i rapporti interpersonali quotidiani.

Questa globalità del mezzo produce conseguenze, anche nell’ambito educativo, che non possono essere annullate attraverso la semplice alfabetizzazione audiovisiva partendo dal presupposto che “conoscere” significhi comprendere e, di conseguenza, appropriarsi di strumenti critici.
Infatti, apprendere i meccanismi attraverso i quali un messaggio raggiunge il proprio effetto non porta, automaticamente, ad una immunizzazione nei confronti dei possibili effetti di quella comunicazione. Il fenomeno non è così semplicisticamente affrontabile perché la conoscenza delle regole grammaticali e sintattiche della lingua italiana non impedisce che milioni di persone leggano, ogni settimana, riviste come Stop, Novella 2000, ecc. Nello stesso modo appropriarsi di codici audiovisivi significa semplicemente stabilire dei livelli di comunicazione.
Per l’immagine, inoltre, il problema è ancora più complesso ed articolato perché la possibilità di comunicare non può prescindere da un feed back reciproco fra mittente e destinatario che, nella programmazione televisiva, esiste quasi esclusivamente con i quiz telefonici. Tuttavia, anche in questo caso, lo spettatore è sempre situato in una posizione di attesa: non può dialogare quando vuole, ma è il comunicatore televisivo che stabilisce tempi e modi.
Di fronte ad una logica di questo tipo lo spettatore può “prendere” o “lasciare”, quindi:
– rifiutare la comunicazione e spegnere il televisore;
– adeguarsi ed accettare quello che viene proposto. In tutti e due i casi non si ha alcuna possibilità di “entrare” o modificare le regole del gioco che andrà avanti a prescindere dalla volontà del singolo.
I “liberisti” della comunicazione di massa sostengono che l’offerta è varia ed articolata, di conseguenza, lo spettatore può scegliere il programma che si addice alle sue caratteristiche. Questa considerazione è vera solo a livello teorico perché, nella quotidianità, le cose si manifestano molto diversamente.
Infatti, il fruitore è in grado di fare una scelta consapevole solamente dopo aver passivamente subito per anni una programmazione a caso o, nell’ipotesi migliore, che altri hanno ritenuto adatta a lui. In questo modo, il bambino arriva alle elementari con migliaia di ore passate davanti al televisore che costituisce il riempitivo dei suoi primi anni di vita. La televisione diventa una baby sitter che costa pochissimo ed alla quale non si chiede mai ragione dei suoi comportamenti “pedagogici”. In pratica, il “bambino-orfano” è “offerto” ad un’istituzione “totalizzante” che ha il solo compito di tenerlo “tranquillo” fino a quando sarà affidato alla scuola materna e successivamente alle elementari dove, in qualche modo, si deve intervenire perché questa “selvaggia” esposizione alla Tv ha provocato una concezione del mondo tivucentrica.

 

IL TEMPO E LO SPAZIO DELLA TELEVISIONE


La televisione, posta al centro della quotidianità, va ad occupare due spazi fondamentali: il luogo e il tempo.
Oggi molti studiosi sostengono che il luogo non esiste più perché i media elettronici hanno rotto il legame che univa determinati comportamenti, atteggiamenti e stili di vita a determinati spazi fisici e simbolici.
Questo legame era costituito dalla constatazione che per i vari luoghi esistevano, convenzionalmente, determinati comportamenti e dal fatto che solamente chi viveva all’interno di un determinato luogo condivideva modelli di comportamento e informazioni che erano solo di quel particolare contesto. La televisione ha rotto questo legame, confondendo le identità di gruppo che un tempo erano separate: gli individui attraverso il mezzo televisivo hanno potuto svincolarsi, dal punto di vista informativo, dai gruppi ancorati ad un luogo definito e hanno potuto invadere molti luoghi cui erano estranei senza neppure entrarci.
La televisione e, successivamente, Internet, hanno come ulteriore specificità il tempo che viene riorganizzato secondo modalità virtuali e che perde sempre più il contatto con la realtà quotidiana. Una partita di calcio non dura più 90 minuti, ma viene confezionata con gli anteprima, i commenti dalle panchine, le considerazioni finali, i continui replay, la possibilità di conoscere, in qualsiasi momento, la velocità della palla e la posizione di un giocatore. Uno spettatore televisivo che assiste ad una partita dal vero deve fare i conti, innanzitutto, con la messa in gioco di tutti i suoi sensi, che con la Tv ha imparato a non utilizzare, inoltre deve gestire i tempi morti. Infatti il meccanismo televisivo è organizzato proprio per impedire i momenti di riflessione che vengono liquidati come inutile perdita di tempo
 

IL MODELLO PERCETTIVO


Una conseguenza del mutato rapporto con lo spazio e con il tempo è rappresentata dal fatto che il fruitore televisivo non riconosce più l’immagine come rappresentazione della realtà quotidiana, ma la collega ad un altro stimolo audiovisivo. Le modificazioni del modello percettivo possono essere verificate attraverso alcune esperienze empiriche condotte nella scuola elementare. Di fronte ad una diapositiva che presenta un parco divertimenti con persone, autovetture e palazzi, il bambino illustra gli elementi che compongono il quadro visivo. Con successive stimolazioni riesce a collegare la diapositiva ad altre rappresentazioni (il luna park visto in un film), ma l’operazione che difficilmente compie è quella di storicizzare l’immagine nella sua quotidianità. Prima di collegare l’immagine al luogo reale in cui ha visto un luna park, il fruitore tende a metterla in relazione ai diversi momenti del suo fantastico audiovisivo.
Una inevitabile conseguenza di questa logica sarà, successivamente, il rapporto fra ragazzi e video-game che costituisce una sorta di continuum dei fenomeni identificativi e proiettivi. Tuttavia, mentre l’identificazione e la proiezione sono fenomeni psicologici, il rapporto col video-game rientra nei fenomeni di relazione sociale. Lo schermo, attraverso il videogioco, passa da comunicazione fantastica a rapporto reale. Non a caso le sale da gioco sono affollate da giovanissimi che, davanti a questi meccanismi si divertono e trovano gratificazione. In questo modo il video-game sostituisce quei rapporti interpersonali giovanili che, alcuni anni fa, si esprimevano con i temi della politica, del cambiamento sociale, delle grandi utopie.
L’uomo, con il telecomando in mano, ha l’impressione di diventare onnipotente ed onnisciente.
Quale può essere l’alternativa ad una logica tivucentrica che si è totalmente impossessata dello spazio e del tempo?
 

L’INUTILITÀ DELLA DEMISTIFICAZIONE DELL’IMMAGINE


Privilegiare la logica della alfabetizzazione, come antidoto alla accettazione acritica, tuttavia può, paradossalmente, portare lo spettatore ad aumentare le proprie frustrazioni. Infatti, nel momento in cui egli comprende i meccanismi persuasivi che stanno alla base della comunicazione audiovisiva, ha, come unica possibilità, quella di gridare la propria diversità, un atteggiamento che non pone molti problemi ai padroni dell’immagine che non hanno difficoltà a controllare chi, individualmente, è convinto di andare controcorrente; i problemi nascerebbero nel momento in cui molti pensassero in un particolare modo, ma questa possibilità è molto remota perché, soprattutto per l’uomo del primo mondo, l’accettazione della cultura televisiva non prescinde dalle sue abitudini quotidiane. Scoprire che il telegiornale è scorretto per il modo in cui sono impaginate le notizie serve, solamente, a formare una cultura asfittica, fine a se stessa, se non si mette in relazione con l’impaginazione dei nostri gesti quotidiani, i quali hanno, come minimo comune denominatore di comportamento, quei valori di individualismo e di perdita di appartenenza al branco che costituiscono l’anima delle manipolazioni televisive. La domanda può sembrare retorica per la sua primordiale semplicità, ma occorre chiedersi a che cosa serve scoprire quali sono i meccanismi che ci inducono ad acquistare un certo abito, quando noi, di fatto, amiamo vestire in quella maniera? Certamente la sua utilità è pari a zero, e può semplicemente alimentare le disquisizioni dei salotti universitari che non portano da nessuna parte se non alla autogratificazione e autocelebrazione dell’élite specializzata.
Probabilmente, operare per fornire meccanismi di difesa all’utente consumatore non passa attraverso la demistificazione dei messaggi di massa, ma da comportamenti culturali “contro” che possono concretizzarsi nella proposta di valori alternativi a quelli televisivi: ad esempio, la solidarietà ed il rifiuto dell’individualismo, la riconquista della felicità come logica filosofica per la quale infiniti sono i modi per godere di questa sensazione e non solo quello, misurabile e concretamente visibile, dell’accumulazione dei beni materiali e culturali.
Inoltre, un’altra riposta può essere costituita dalla temporanea o periodica astensione dell’utilizzazione della televisione e di altri mezzi di comunicazione multimediale.
 

SCIOPERO CONTRO LA TELEVISIONE E LA REALTÀ VIRTUALE


Domenica 21 marzo 1999 , raccogliendo un’idea del regista Silvano Agosti, ho organizzato uno sciopero dello sguardo contro la Televisione. In pratica chi aderiva doveva astenersi dal vedere la televisione per 24 ore. Sinceramente non so quante persone abbiano aderito. Non lo so e non ho un particolare interesse per gli aspetti quantitativi perché l’obiettivo non era tanto quello di avere masse unite e compatte contro la televisione, ma scoprire che gruppi di persone, sparse qua e là, erano disponibili a sospendere il rumore televisivo. Ecco allora che assume significato l’astensione quasi completa dalla televisione che vede coinvolto, da più di un anno, Mario Lodi, ecco allora che le telefonate e i fax di casalinghe di Bozzolo e Castelgoffredo, maestre di Alba e di Reggio Emilia, educatori di Macomer, autisti di corriere di Mantova, medici di Avellino e le attestazioni di solidarietà di persone diversissime fra di loro hanno dimostrato che lo “sciopero dello sguardo” non era tanto un’iniziativa curiosa, ma l’esplicitazione di sentimenti e di consapevolezze che cominciano a farsi strada in modo trasversale a prescindere dall’appartenenza a schieramenti ideologici prefissati. Non mi stupisce che pochi quotidiani italiani abbiano dato notizia dell’iniziativa, infatti il rifiuto di questa notizia non è tanto legata al fatto che l’evento esiste soprattutto in relazione a chi lo propone, ma perché la stampa nazionale ha compreso benissimo che questo è un modo per prendere le distanze dalla società dei consumi che prospera grazie alla televisione e anche ai giornali che, molto spesso, sono legati a doppio filo col mondo televisivo.
Lo sciopero dello sguardo non ha trovato spazio nella stampa perché non cercava lo scontro frontale con il nemico televisivo, ma sceglieva il silenzio che, paradossalmente, diventa la più alta forma di comunicazione.
Non mi stupisce che anche i giornali, cosiddetti di sinistra, si siano completamente disinteressati dell’iniziativa; infatti, da tempo hanno dimostrato di essere assolutamente incapaci di riflettere sugli stravolgimenti operati dalla televisione e dalle nuove tecnologie che forniscono, in modo coercitivo, i tempi e i modi della comunicazione.
Racconta esemplarmente Mario Lodi che “Quando qualcuno ci ascolta ci rendiamo conto di avere la capacità di formulare pensieri”. Sono convinto che la società multimediale ci stia portando verso una progressiva e indolore decelerazione dell’attività cerebrale: questo è il prezzo da pagare al “progresso” (sic), ammonisce il pensiero dominante che accomuna logiche partitiche di destra, di sinistra e di centro.
Questa nuova oligarchia sostiene che occorre attrezzarsi per colloquiare con l’industria dei contenuti che ha trasformato la società dell’”hardware” (ferraglia) in quella del “brainware” (cervelli). Tuttavia questo fatto non significa nulla per quanto riguarda i processi educativi e formativi. Infatti, se non si comprende che la società dell’”hardware” era governata da cervelli che utilizzavano la “ferraglia” per raggiungere specifici obiettivi, si corre il rischio che la società del “brainware” sia governata dalla “ferraglia”; non si tratta di una semplice battuta, perché l’approccio alle nuove tecnologie educative non può prescindere da un back ground che deve costituire la “bussola” in grado di fornire indicazioni in merito al percorso da seguire. Questo, si voglia o no, è il percorso dell’umanità: qualsiasi nuova scoperta, per grande sia stata, non ha potuto prescindere da un bisogno originale. La luce elettrica ha sostituito la lampada a petrolio che, a sua volta, aveva preso il posto della candela che razionalizzava i benefici del fuoco; queste nuove scoperte non hanno fatto diventare l’uomo meno dipendente dal sole e dalla luna, quindi dal bisogno di luce e calore; semplicemente si sono cercate nuove risposte a questi bisogni. Tuttavia, nel momento in cui le invenzioni prescindono dai bisogni originari dell’uomo, diventano autogiustificanti e si pongono, non come elementi complementari, ma sostitutivi della luna e del sole, allora, probabilmente, è il caso di fermarsi a riflettere perché una metodologia innovativa che non tenga conto del passato è destinata a diventare padrona dell’uomo perché gli toglie i suoi punti di riferimento naturali e antropologici e diventa Hal, il computer di 2001 Odissea nello spazio.
Lo sciopero dello sguardo rappresenta un piccolo passo per la riappropriazione, da parte dell’uomo, dei suoi bisogni più profondi e naturali.
 

UNA NUOVA PROPOSTA


Una nuova proposta operativa è quella di astenersi dall’utilizzazione di Internet e della televisione per un giorno alla settimana. Con questo tipo di scelta si raggiungerebbero i seguenti obiettivi:
– riappropriazione dello spazio, infatti non essendoci la televisione e la
comunicazione virtuale a fare da tramite fra l’individuo e il mondo ciascuno di noi dovrà ridefinire i luoghi di appartenenza, in base all’esperienza concreta;
– ridefinizione del tempo: l’individuo riacquisisce il significato di tempo come bene prezioso che deve essere utilizzato sulla base di obiettivi da raggiungere. In pratica, almeno un giorno alla settimana, si ribalterebbe la logica per la quale la televisione si è impossessata del nostro tempo non lavorativo attraverso la logica del “non so cosa fare quindi guardo la televisione” o peggio ancora “devo terminare presto i miei impegni perché a casa mi aspetta la televisione”.
Con un giorno alla settimana senza Tv si comincerebbe a dire No, in modo chiaro e inequivocabile, a chi mischia missili – teleguidati, “intelligenti” e “pacifisti” – con fame miseria e pannolini profumati che tengono fresco e ricco di effluvi odorosi il sederino del bambino.
Inoltre, attraverso la ricerca di piccole alternative quotidiane si dimostrerà che il mondo non è composto solo da robot tele-comandati, ma anche da persone che conservano i primordiali istinti dell’uomo come vedere, sentire, toccare, annusare, fiutare e, soprattutto, pensare.
Successivamente – partendo dalle scoperte o riscoperte, dalle cose fatte e non fatte durante il digiuno settimanale – si tenterà di organizzare un circuito di relazioni che permetterà a ciascun cooperante di comunicare, confrontarsi e costruire.

Bibliografia
 Jerry Minder, Quattro argomenti per eliminare la televisione, Dedalo, 1982.
 Mario Lodi, La televisione a capotavola, Mondadori, 1994.
• M. Augé, Non luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Eleuthera Milano, 1996.
• J. Meyrowuitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville Bologna, 1993.


 

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