Il Vangelo nel tempo
Quale valore le Sacre Scritture attribuiscono al lavoro dell’uomo? Mi pare che nella Bibbia non si trovino enunciazioni di principio sul valore del lavoro e sul suo significato, ma in essa il lavoro appare come la condizione normale. I lavori evocati sono quelli dell’artigiano, dell’agricoltore, del pastore ecc. cioè delle figure professionali che concretamente reggevano l’economia del tempo.
Il salmo 104, un inno di lode che descrive gli splendori della creazione, sottolinea il legame stretto tra i viventi e i frutti della terra, secondo l’intenzionalità divina:
“Fai crescere il fieno per gli armenti e l’erba al servizio dell’uomo, perché tragga alimento dalla terra: il vino che allieta il cuore dell’uomo; l’olio che fa brillare il suo volto, il pane che sostiene il suo vigore” (14-15).
Questi prodotti ovviamente implicano l’intervento tecnico umano che si suppone in stretta continuità con il “lavoro” di Dio. Più avanti c’è l’esplicito riferimento alla giornata lavorativa dell’uomo espresso in modo tale da indicarne la condizione universale: “Sorge il sole… allora l’uomo esce per il suo lavoro per la sua fatica sino a sera” (22-23).
Le parabole di Gesù utilizzano elementi della vita quotidiana nella semplice laicità e immediatezza del loro offrirsi per raccontare i segreti del Regno (la semina del terreno e la raccolta del grano, la pesca nel lago, il lievito nella farina, la donna che cerca la moneta in casa, il lavoro degli operai a giornata…).
Il Vangelo ci presenta Gesù stesso come “il carpentiere” (Mc. 6,3), come “il figlio del carpentiere” (Mt. 13,55), evocando un suo status, non propriamente lusinghiero per la sua autorevolezza messianica.
Anche Paolo, nell’esercizio della sua vocazione apostolica, lavora con le sue mani (At. 18,3) e se ne gloria (At. 20, 34; 1 Cor. 4,12) perché questo gli consente di offrire il Vangelo nella assoluta gratuità. Ai Tessalonicesi scrive che occorre lavorare per mantenersi (2 Ts., 3,10).
Il lavoro pertanto viene correlato in maniera semplice al bisogno elementare di guadagnarsi il cibo necessario alla vita e dunque fa parte della sua dimensione quotidiana.
Vi è un testo del libro della Sapienza, che per spiegare l’origine della navigazione, chiama in causa tre fattori: “la sete di guadagno… la sapienza artigiana… la guida della provvidenza” (Sap. 14,2ss). Il primo rende ragione delle iniquità, oppressioni e della mercificazione che avvelenano i rapporti di lavoro; il secondo mette in luce le meraviglie che si possono realizzare, quella, ad esempio, che consente al navigatore di affidare la sua vita ad una fragile barchetta affrontando l’enorme forza delle onde; infine il riferimento alla provvidenza lascia intravedere un certo collegamento e continuità fra l’opera del lavoro umano e la sapienza creatrice di Dio (Sap. 14,5).
“Questa (la barca), infatti, fu inventata dal desiderio di guadagni
E fu costruita da una saggezza artigiana;
ma la tua provvidenza, o Padre, la guida.
Tu non vuoi che le opere della tua sapienza siano inutili
Dopo questi pochi riferimenti possiamo chiederci: “che cosa può dirci la Bibbia sul lavoro, così come oggi lo conosciamo?”.
Siamo ben lontani dalla realtà organizzativa e tecnologica del lavoro moderno, con la produzione intensiva che lo caratterizza, come si è imposto nella società occidentale, e successivamente in altre parti del mondo, con la dimensione globalizzata dell’economia, della finanza, del mercato, della tecnologia.., con tutte le ricadute che derivano per quella parte di umanità che dispone di una occupazione e dell’altra parte, grandissima, che ne è priva.
Penso che nella Bibbia noi possiamo trovare un orizzonte di senso che non riguarda solo il lavoro, ma lo stesso abitare dell’umanità sulla terra. Un orizzonte di senso di cui c’è enorme bisogno, che scaturisce da una parola “altra” rispetto agli interessi in campo che tendono a coprire a ad avvolgere ogni pensiero “diverso”.
Utilizzerò i tre fattori citati dalla Sapienza, come spunto più che come esegesi, per accennare all’orizzonte biblico applicato alla situazione del mondo contemporaneo.
1. La sete di guadagno
Dai templi dell’alta finanza alle piccole aziende manifatturiere la sete del guadagno è la molla che spinge tutte le attività. Ormai tutta la vita economica si basa esclusivamente sul principio della massimizzazione del profitto, mentre il bene economico è sganciato rispetto all’utilità reale per le popolazioni. Domina sovrana la legge della forza, della competizione, che punta all’eliminazione o all’assorbimento dell’avversario. E una corsa al dominio. Il problema è di ordine strutturale e le conseguenze sono di ordine generale’.
“Quando guardiamo alla composizione strutturale delle nostre società odierne, notiamo che il mondo è costituito da una immensa povertà fra una grande ricchezza. Tra i 6 miliardi di popolazione mondiale, è stato stimato che quasi la metà (2,8 miliardi) vive con meno di 2$ al giorno. Quasi il 20% a livello mondiale, 1,2 miliardi, vivono con meno di 1 dollaro al giorno”. (David B. Couturier, OFM. Cap., Itinerarium in extremis… in Pretioperai 67/2005, 25).
L’illimitatezza nella accumulazione del potere e dei beni, nella loro accezione più larga, il dominio reale delle fonti di ricchezza concentrato nelle mani di pochi, il conseguente impoverimento e riduzione alla miseria dei molti, è una maledizione per tutti.
Ed ora ecco che una parola piove improvvisa come una meteora:
“La terra appartiene a me, il Signore, e voi sarete come stranieri o come emigranti che abitano nel mio paese” (Lv. 25,23).
L’affermazione del Levitico – altre se ne potrebbero addurre – estensibile a tutta la terra e all’umanità intera cade come un macigno in un mondo strutturalmente organizzato sulla profittabilità e l’accaparramento.
Il mondo che emerge dalla tradizione biblica, è quello affidato alla responsabilità ed alla gestione degli esseri umani, non all’arbitrio di un potere che si pretenda illimitato, con facoltà di usarlo ed abusarlo.
Un mondo dove tutto è sottoposto al limite. Guardare al mondo pensando che “la terra è di Dio” ha un effetto ottico straordinario: come le immagini del nostro pianeta “azzurro” che ci vengono rimandate dalle navicelle spaziali. Tutto ciò che appare grande e potente nella scena del mondo viene ridotto in miniatura, alla dimensione lillipuziana.
E tuttavia l’illimitato è in azione. “Sarete come Dio” (Gen, 3,5) è la grande tentazione e caduta che troviamo nelle prime pagine della Bibbia come parabola che interpreta la storia degli umani. La nostra storia. La dismisura, in tutte le sue apparizioni, è il segnale della caduta: la volontà padronale tesa al dominio potenzialmente assoluto, senza spazio per l’alterità e quindi per quell’ umanità che è altra.
“Mia è la terra”: la rivendicazione da parte del Dio biblico significa la secca negazione del suo accaparramento padronale. “Mia è la terra” equivale a dire che per ogni essere umano ci deve essere una zolla di terra, una reale possibilità di vita. I beni della terra, che nell’impianto biblico rappresentano la benedizione perché sono la vita stessa per gli esseri umani, sono quindi destinati a diffusione capillare, non solo a favore delle attuali generazioni, ma anche per quelle che verranno. Una volta sottratti all’uso solidale, divorati in un consumo irresponsabile e ottuso verso il futuro, si rovesciano nel loro contrario diventando occasioni, strumenti e promesse di morte.
2. La sapienza artigiana
La meraviglia per la sapienza artigiana è stata sostituita dalle sorprese incredibili che la coppia scienza/tecnica ha riservato alle nostre generazioni. Da una condizione umana caratterizzata dalla dipendenza praticamente completa dalla natura (alimentazione, lavoro, ritmi di vita, universi simbolici, espressioni religiose) si è passati ad un dominio sempre più ampio fino a considerare il mondo esclusivamente come qualcosa che l’uomo può utilizzare ai propri scopi. L’associazione sapere/potere e l’accoppiamento scienza/tecnica hanno reso possibile ed operante questo cambiamento radicale, e ha dato strumenti formidabili all’ideologia dell’espansione e della conquista. La natura viene ridotta a campo di intervento senza limiti, interamente disponibile all’attività umana, senz’altra finalità che quella che le viene imposta, quale materiale indifferenziato, dall’intervento tecnologico.
Ma fino a quando e fin dove sarà possibile?
L’esistenza umana è strutturalmente corporea; ha una dimensione biologica che la pone in un sistema di relazioni e di complesse interdipendenze senza le quali qualunque vita sarebbe impossibile. Pertanto il dominio sulla natura finisce per diventare inevitabilmente dominio sulla stessa vita umana.
“L’ecologia .. . ha mostrato che la sfida lanciata dal binomio scienza e tecnica, se è vincente per l’uomo soggetto di dominio, è perdente per l’umanità soggetto di bisogni e abitatrice del cosmo. L’ecologia ha riscoperto la ‘natura’. Il mondo extra-umano come luogo di qualità, di nessi e complessi non puramente matematici che se ignorati e violentati, compromettono l’abitabilità dell’universo” (A. Rizzi, Messianismo nella vita quotidiana, Torino 1981).
Vi è uno splendido passo biblico, che a me sembra particolarmente fecondo per offrire un ampio orizzonte di senso all’interno del quale comprendere ed interpretare le decisioni ed attività umane:
“Tutto l’universo aspetta con grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli. Il creato è stato condannato a non aver senso, non perché l’abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha trascinato. V è però una speranza: anch’esso sarà liberato dal potere della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. Noi sappiamo che fino ad ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce. E non soltanto il creato, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che Dio liberandoci totalmente, manifesti che siamo suoi figli” (Rom. 8, 19-23).
Queste bellissime parole vengono definite “la gemma della Bibbia”.
Mi sembra che esso possieda attualità e profondità di insegnamento unici, alla luce delle trasformazioni storiche avvenute in questi ultimi secoli ed anche in presenza di diffusi livelli di coscienza.
Oggi siamo in grado di meglio comprendere quello che significa “la condanna a non aver senso per il creato” e il suo bisogno di liberazione dalla situazione di soggezione “al potere di corruzione”. Possiamo anche apprezzare tutta la verità del gemito e della sofferenza che attanaglia l’umanità assieme al mondo abitato. Diventa importante sentirsi ripetere che questo soffrire non è il preludio della morte del creato, ma assomiglia alle doglie del parto in vista della generazione di una nuova umanità in un mondo rinnovato. Possiamo scoprire una nuova coscienza del rapporto di alleanza che ci lega al nostro mondo, dove gli esseri umani possano pervenire alla verità della propria autentica dimensione e così trovare un rapporto creativo con la terra quale terreno da coltivare, non da de- predare e distruggere. Questo ormai si impone come unica possibilità perché i nostri figli possano ritrovarsi un pianeta ancora vivibile.
3. La guida della Provvidenza
Più avanti il testo continua e dice: “Tu non vuoi che le opere della tua sapienza siano inutili” (14,5).
Per la fede biblica vi è un misterioso legame tra la creazione di Dio e gli interventi umani che la modificano. L’alternativa è: portarla a compimento, e allora quella sapienza perviene alla manifestazione che si riflette nel creato come benedizione; oppure condannarla alla inutilità o alla perversione totale e allora domina la prevalenza della distruttività umana e frustrazione del senso.
Quando il cibo e l’acqua arrivano all’affamato ed assetato si rivela la pienezza di senso della creazione. Quando gli esseri umani vengono privati dei beni necessari alla vita o sfruttati nella loro umanità, nella loro intelligenza ed energia lavorativa, sentono sulla loro carne il morso di una maledizione, non certo quella di Dio, ma degli inferni creati dalle disumanità prodotte dagli uomini.
Come valutare il lavoro? Quale è il suo valore?
Esso, e coloro che lo svolgono, sono all’interno dell’orizzonte del quale sono stati delineati brevi tratti. Non si può stabilire a priori, alla cieca, il suo valore. Per poter dire una parola occorre almeno conoscere il che cosa e il come si produce, quali sono le conseguenze per i soggetti in campo, a breve e lungo termine, quale l’impatto ambientale…
Qualche esempio tra i molti che si potrebbero addurre: vi è una fabbrica nuova di zecca, costruita con tutti i sistemi di igiene e sicurezza, gli operai e i tecnici sono pagati bene. Peccato che in essa si costruiscono bombe a grappolo, il cui unico scopo è colpire la popolazione civile e gettarla nel panico, seminando di bombe il territorio destinato a diventare un immenso campo minato che rimarrà in piena attività anche dopo il “cessate il fuoco”. Oppure, in un calzaturificio si producono scarpe di ottima fattura e qualità che riescono a stare sul mercato per i prezzi convenienti tanto da battere addirittura la concorrenza cinese. La clientela è soddisfatta. Molto meno i lavoratori perché non c’è un sistema di aspirazione dei vapori delle colle che sia efficace, con elevato rischio di gravi malattie professionali. E ancora: lo stillicidio quotidiano dei morti e degli invalidi permanenti sul lavoro, “stragi sul lavoro” che accadono come “ordinaria amministrazione”. Per non dire la presenza nella civilissima Europa di vere e proprie forme di schiavitù, con corpi e anime venduti e spremuti da tutti i punti di vista, naturalmente per cavarvi il massimo di profittabilità (la denuncia di Fabrizio Gatti sulla schiavitù in Puglia sull’Espresso del 1 settembre scorso o quella analoga che si consuma nel sud della Spagna dove si producono frutta e ortaggi per tutta Europa con il lavoro degli immigrati, anche lì trattati come schiavi tra l’indifferenza generale, comparsa sul Venerdì di La Repubblica del 7 ottobre scorso: sono finestre che momentaneamente si aprono su realtà infernali diffuse, per poi richiudersi rapidamente, sommerse dalla folla delle immagini del regime dei consumi).
Gli esempi si potrebbero moltiplicare… Rimando ad altri contributi presenti in questo quaderno.
Un padre della Chiesa diceva: “la gloria di Dio è l’uomo che vive”. Spesso la formula è stata interpretata in maniera piuttosto astratta. Mons. Romero ha pensato bene di tradurla in questo modo: “la gloria di Dio è il povero che vive”. Suona meglio perché è più concreta e include chiaramente i 2.800 milioni di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno e i 1.200 milioni che tentano di sopravvivere con meno di 1 dollaro al giorno.
Il mondo, il nostro, “la cui vita economica si basa esclusivamente sul principio della massimizzazione del profitto, mentre il bene economico è sganciato rispetto all’utilità reale per le popolazioni”, e che viene presentato come l’unico mondo possibile, in realtà si rivela in aperta contraddizione con il Dio provvidente della creazione e condanna alla sterilità l’intenzionalità rivelata dalla sapienza racchiusa nella parola biblica.
Anche il lavoro, anzi soprattutto il lavoro umano, fa i conti con quel potere di corruzione nominato nella lettera ai Romani. È attraversato dal gemito e dalla sofferenza, come tutto il creato, ed ha un continuo bisogno di liberazione per vincere le disumanità nelle quali è irretito.
Non è sotto gli occhi di tutti? Ma su tutto questo raramente, e solo per episodi, si rompe il silenzio oscuro. Domina un’afasia colpevole. Sento già le obiezioni che invitano al “pensare positivo”, a vedere le cose buone che ci sono in giro, a puntare all’ottimismo che deriva dalla fede cristiana ecc…
Personalmente ritengo che parlare di speranza, di etica e di antropologia gonfiandosi la gola nel proclamare la dignità umana della singola persona, senza sollevare il velo oscuro che ricopre le realtà strutturali che producono gli inferni umani vuol dire confinare il Vangelo in un limbo. Da quando la Sapienza di Dio si è incarnata, diventando “come un servo”… (Fil. 2, 6-11), non si può credere e parlare del Risorto senza incrociare le piaghe che evocano la storia di oppressione, di dolore e di morte che Lui ha condiviso. Quelle ferite sono ancora aperte: sono le stesse che vediamo nelle esistenze concrete delle donne e degli uomini di oggi.