“NON DOVRANNO PIÙ ISTRUIRSI
GLI UNI GLI ALTRI!”

(Ger 31,34)


 

A partire da un articolo di C. Duquoc (pubblicato da Concilium 1/1990) e da alcuni testi di un corso di aggiornamento per sacerdoti, abbiamo tentato di vedere quali conseguenze può avere sulla Chiesa un modo di leggere la Scrittura non liberato dallo Spirito, ma pieno di paure e di preoccupazioni che con la Scrittura non hanno niente a che fare.

TRA CAPRA E CAVOLI:
RIMOZIONI E PAURE NELL’INTERPRETARE LE SCRITTURE

A. ALLE SOGLIE DEL TERZO MILLENNIO

(un articolo di C. Duquoc liberamente riassunto – Concilium, 1/1990)

Ci sono nella Scrittura affermazioni – sfide dirompenti, di cui la chiesa fa “memoria”, di cui dovrebbe essere annuncio vivo, ma che in realtà rimangono disattese o addirittura dalla chiesa stessa dimenticate. Ne prendiamo in considerazioni alcune:

1. La pluralità delle chiese
Unità e pluralità sono vissute in maniera ambigua. La pluralità è sentita come conseguenza di un male storico, non come un segno della diversità positiva delle chiese. Per cui il valore da salvare rimane l’unità, verso cui gli altri devono tendere. “Se tuo fratello ha qualche cosa contro di te…” vale per gli individui, non per le chiese! Così si può accogliere chiunque alla propria tavola, dal punto di vista personale (sia un nemico di classe o un nemico nazionale), ma nelle chiese non si può condividere il pane della fraternità. “Non c’è più giudeo né greco” sarà vero nel mondo profano, ma non per le chiese, dove la divisione è garantita e codificata. Così, mentre da una parte si afferma il valore dell’unità, dall’altra la si contraddice tenendo aperta la divisione.

2. La divisione dei sessi
“Non c’è più uomo né donna”. In realtà, con motivazioni addirittura opposte (una volta la donna non era abbastanza “degna” per dirigere e santificare, oggi è troppo degna perché la si abbassi ad un compito inferiore) gli effetti sul piano istituzionale sono identici: c’è come una ostinazione nella disuguaglianza dentro la chiesa, mentre si appoggiano le lotte femministe fuori della chiesa.

3. La struttura gerarchica
• è fondata sul sacramento dell’ordine sacro, con i tre poteri di insegnare, santificare, governare;
• è perciò legata all’immutabilità del sacro, dell’eterno. In un certo senso la chiesa non ha storia, perché la sua struttura ha dell’eterno. Fu istituita gerarchica e tale rimarrà fino alla fine dei tempi, mentre le altre istituzioni passano;
• lo stile “democratico” usato dalla Conferenza Episcopale Americana per preparare i recenti documenti sugli armamenti e sull’economia, è stato duramente criticato dai vertici della chiesa, perché la chiesa cattolica non può imitare la società civile, dove le opinioni sono sottoposte alle variazioni degli umori delle maggioranze. I vescovi dispongono di un potere di insegnare che è loro proprio e non deriva dal popolo credente; sarebbe contro natura che coloro che devono insegnare nel nome e con l’autorità di Cristo sottomettano le proprie decisioni dottrinali all’esame dei comuni fedeli. Questa concezione dà per scontato che nelle democrazie il vero e il morale dipendono dalle variazioni degli umori popolari: è uno scadente concetto di “democrazia” che è in realtà fondata sul rispetto dei diritti garantiti da una Costituzione e dove l’esercizio della giustizia non è legato alla ragion di stato o alla legge delle maggioranze. È assurdo opporre chiesa e democrazia, come se questa fosse il luogo dell’arbitrario;
• non esiste nessuna separazione tra il sacramento dell’ordine e il compito di governare: il governo della chiesa è totalmente in mano al clero. Il Concilio Vaticano Il ha sì suggerito un’organizzazione più sinodale della chiesa, ponendo in secondo piano la struttura gerarchica a vantaggio di un embrione di sistema rappresentativo (vedi i vari consigli pastorali e presbiterali), ma con scarsi effetti perché non c’è niente di ratificato istituzionalmente;
• in molte chiese ormai, per scarsità di clero, la catechesi, le parrocchie, le celebrazioni sacramentali sono affidate a laici, uomini e donne, cosicché gran parte del ministero di insegnamento e di santificazione viene compiuto da essi. Due compiti, finora monopolio del clero ordinato, vengono dunque concessi ai laici; solo il compito di governare non è loro concesso ufficialmente. Può durare ancora a lungo questa situazione? 


 

OLTRE IL DIO PENSATO, USATO, CERCATO…

 

Contro la tradizione pietrificata e pietosa di ‘Dio’ come oggetto catechistico, Supremo che sta da qualche parte, oggetto sacro di studi specializzati, minaccia moralistica per tenerci in riga in attesa di un giudizio ecc., due altri testi dall’induismo. Le stesse cose nel De Trinitate di Agostino; ma ai figli di Dio, ai ‘cagnolini’ non arrivano le briciole che hanno la stessa natura del pane, ma le rimasticature catechistiche.

«Tutto ciò che siete stati, avete visto, fatto e pensato non eravate voi, ma Io, a vedere, fare, pensare…
Il Pellegrino, il Pellegrinaggio e la Via non sono che Io che vado verso me stesso. E il vostro arrivo … Io che busso alla mia propria porta…
Venite, atomi dispersi, animati dal vostro centro… Raggi erranti in una immensa oscurità, venite a reintegrarvi nel Sole». (Shankhayana XIII)

«Qualcuno forse ci domanderà, dice Somananda, a che servono i maestri, le scritture, ecc. Ma a costui noi replicheremo che è Siva stesso che così si manifesta. Ma qual è lo scopo per cui Dio vuole illuminare se stesso attraverso le Scritture? Che scopo ha quest’opera stessa da te scritta e chi è colui che essa deve servire a illuminare?
L’unica risposta è questa, che cioè Egli stesso, per sua volontà si manifesta in tal modo e come autore delle scritture e come discepolo e come risvegliato e come seguace di queste scritture e come il frutto di questa osservanza ad un tempo». (Sivadresti III, 73-76a).

(in Ananda Coomaraswamy, Induismo e Buddismo, Rusconi, pag. 89)


 

4. Cultura e teologia
Secondo il documento della Congregazione per la dottrina della fede “Donum vitae” il ruolo del teologo moralista (possiamo dedurre che non sia diverso per tutte le altre discipline teologiche) è quello di esplicitare e difendere le decisioni del magistero. Questa posizione è un’assurdità rispetto alla cultura moderna, ma si giustifica così: la teologia non è una scienza autonoma come le scienze umane, ma un sapere iscritto in un’istituzione testimone di una rivelazione: la tradizione è quindi normativa. In teologia non è la ragione a dominare, in ultima istanza, ma il “credere”; e questo è mediato dall’istituzione ecclesiastica.
Tutto è avvenuto a partire dal secolo scorso, di fronte al proliferare di filosofie e pensieri senza legami con la rivelazione e con la dottrina della chiesa cattolica; la chiesa ha guardato all’epoca medievale come a quella che meglio era riuscita ad armonizzare le esigenze della fede con quelle della ragione; in particolare il pensiero teologico di Tommaso d’Aquino era giunto ad una sintesi esemplare tra il rigore aristotelico e la fede cristiana. Così Leone XIII dichiara Tommaso il teologo perpetuo della chiesa cattolica e ufficializza il suo pensiero: una teologia storica, contingente, viene proposta come modello unico, provocando contraddizioni enormi con la cultura moderna. Questo è diventato palese soprattutto nelle questioni morali.

5. La morale individuale
Tutti siamo testimoni di che cosa significhi continuare a ripetere i principi derivanti dalla “legge naturale”: nessuna discussione è possibile sul terreno della contraccezione artificiale, della regolazione delle nascite, delle leggi sull’aborto, del divorzio, della procreazione artificiale. Cambia il vocabolario (non si dice più “lecito” o “illecito”, ma “punti di riferimento”, “ideali”, ecc…), ma la realtà rimane la stessa.

6. La morale sociale
Qui il discorso è più complesso, perché non è chiaro il ruolo della chiesa, che da una parte spara a zero su tutto e su tutti (vedi Sollicitudo rei socialis), dall’altra sposa i sistemi esistenti con dei correttivi di tipo solidaristico (vedi Centesimus annus). Non si capisce bene qual’è la proposta.

B. “IL VANGELO DELLA CARITÀ”

(dall’ultimo corso di aggiornamento per i preti della diocesi di Vicenza)

Proponiamo qualche spunto che sembra la prova immediata di quanto letto nell’articolo di C. Duquoc. Si sono sentite, a livello di principi, affermazioni di portata rivoluzionaria, quali:
• la fine della separazione tra sacro e profano, perché il vero culto nel Nuovo Testamento è la vita quotidiana;
• l’unico mediatore della salvezza è Gesù Cristo: è finito tutto un sistema di riti, di culto, di mediazioni sacerdotali. Si porta l’esempio dell’atto di culto più alto dell’Antico Testamento, il sacrificio, composto di cinque elementi: l’offerente, l’offerta, il sacerdote, la vittima, il gradimento; ebbene, con il sacrificio di Cristo sulla croce tutto questo scompare, perché Gesù racchiude in sé, con il dono della vita, tutti gli elementi del sacrificio;
• nella comunità di Gesù si vivono rapporti nuovi di parità e di uguaglianza tra i membri: nessuna gerarchia dunque!
• Cristo è un “laico”, non appartiene alla casta sacerdotale, compie un sacrificio “pro – fano”, vissuto “fuori” della città santa, fondando un culto assolutamente nuovo, il cui elemento essenziale è il “dare la vita”, liberamente, per amore, nello Spirito. La vita dunque, nella sua profanità, è cultuale se è data per amore.
 


 

PAROLE, PAROLE, PAROLE

Un altro pensiero di Michel Staedter (La persuasione e la retorica, ed. Adelphi, pag 99) sulle comunità vuote dove ci si scambia solo parole

Per se stesso un uomo sa o non sa; ma egli dice di sapere per gli altri. Il suo sapere è nella vita, e per la vita, ma quando egli dice “io so”, dice agli altri che egli è vivo per aver dagli altri alcunché che per la sua affermazione vitale non gli è dato. Egli si vuol “costituire una persona” con l’affermazione della persona assoluta che egli non ha: è l’inadeguata affermazione d’individualità: la retorica.
Gli uomini parlano, parlano sempre e il loro parlare lo chiamano ragionare; “ma qualunque cosa uno dica, non dice, ma attribuendosi voce a parlare, si adula”.
Come il bambino nell’oscurità grida per farsi un segno della propria persona, che nell’infinita paura si sente mancare; così gli uomini, che nella solitudine del loro animo vuoto si sentono mancare, s’affermano inadeguatamente fingendosi il segno della persona che non hanno, “il Sapere” come già in loro mano.
Non sentono più la voce delle cose che dice loro “tu sei”, e nell’oscurità non hanno il coraggio di permanere, ma cerca ognuno la mano del compagno e dice: “io sono, tu sei, noi siamo”, perché l’altro gli faccia da specchio e gli dica: “tu sei, io sono, noi siamo”; ed insieme ripetono: “noi siamo, noi siamo, perché sappiamo, perché possiamo dirci le parole del sapere, della conoscenza libera e assoluta”.
Così si stordiscono l’un l’altro.
Così, poiché niente hanno, e niente possono dare, s’adagiano in parole che fingono la comunicazione: poiché non possono fare ognuno che il suo mondo sia il mondo degli altri, fingono parole che contengano il mondo assoluto e dì parole nutrono la loro noia, di parole si fanno un empiastro al dolore, con parole significano quanto non sanno e di cui hanno bisogno per lenire il dolore – o rendersi insensibili al dolore: ogni parola contiene il mistero – e in queste s’affidano, di parole essi tramano così un nuovo velo tacitamente convenuto all’oscurità: “Dio m’aiuti” – perché io non ho il coraggio d’aiutarmi da me.


 

Tali affermazioni hanno come la pretesa di definire l’EVENTO.
Ma, poco dopo, il teologo, il liturgista, il pastoralista rimettono le cose al loro posto! Vediamo:
• “L’amore non è esclusiva dei cristiani, ma a noi spetta, a partire dalla pienezza dell’amore rivelatoci e donatoci a Pasqua, assumere, purificare, elevare ogni seppur minima traccia di amore pulsante nel cuore degli uomini.” E viene ripreso tutto un ruolo della Chiesa gerarchica che sembrava non essere così presente nelle affermazioni precedenti. Insomma, l’amore non è mai tale (vero, autentico…) se non è marchiato “cristiano”, se la chiesa non lo riconosce.
• Un’altra affermazione: “Da ciò che il Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito ha operato per noi, è possibile risalire a ciò che Dio è in se stesso, eternamente” È tutto chiaro! Noi possediamo Dio; noi chiesa dunque. Chiunque intende conoscere Dio, deve passare attraverso la Chiesa; la mediazione è necessaria, anche se non si dice mai.
• Sulla liturgia riportiamo alcune affermazioni sul rapporto della convocazione liturgica con il quotidiano:
– “Bisogna uscire dal quotidiano e salire sulla montagna per incontrare il volto del Signore, non perché il quotidiano sia cattivo, ma perché Dio è sempre al-di-là, è l’Altro”.
– “Si esce dal quotidiano non per rinnegarlo, ma per coglierne l’intima essenza e il valore profondo. Solo dall’alto dello sguardo di Dio si coglie la realtà nella verità”.
– “Si esce dal quotidiano per riportare la realtà creata e redenta alla sua sorgente e al suo fine: l’amore di Dio”.
Queste affermazioni riportano in primo piano la distinzione tra “sacro” e “profano” che sembrava eliminata in linea di principio.
Infine, il programma pastorale diocesano che si rifà a quello della CEI, “Evangelizzazione e testimonianza della carità”, prevede addirittura i “frutti di cui rendere grazie” ad ogni scadenza triennale! Come dire: poste alcune iniziative di evangelizzazione, “avvengono” i frutti! Libertà di Dio, del soggetto, ecc,… non sono cose decisive! 


 

CONTRO LE GATTE CATECHISTICHE FRETTOLOSE
E I LORO GATTINI CIECHI…

Nella sua celebre “Lettera VII”(In Platone, Opere, vol. 2°, pag. 1076, ed. Laterza) Platone ricorda qualche suo discepolo che comprende facilmente la sua dottrina e subito la traduce in uno scritto. Gesto naturale di milioni di evangelizzatori. Ciechi i gattini che nascono e cieche le gatte sui loro nati.

In seguito, mi fu riferito, egli ha anche composto uno scritto su quanto allora ascoltò, e fa passare quello che ha scritto per roba sua, e non affatto come una ripetizione di quello che ha sentito; ma di questo io non so nulla.Anche altri, io so, hanno scritto di queste cose, ma chi essi siano neppure essi sanno. Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscono nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né ci sarà, alcun mio scritto.Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune; e poi si nutre di se medesima. Questo tuttavia io so: che, se ne scrivessi o ne parlassi io stesso, queste cose le direi così come nessun altro saprebbe, e so anche che se fossero scritte male, molto me ne affliggerei. Se invece credessi che si dovessero scrivere e render note ai più in modo adeguato e si potessero comunicare, che cosa avrei potuto fare di più bello nella mia vita, che scriver queste cose utilissime per gli uomini, traendo alla luce per tutti la natura?Ma io non penso che tale occupazione, come si dice, sia giovevole a tutti; giova soltanto a quei pochi che da soli, dopo qualche indicazione, possono progredire fino in fondo alla ricerca: gli altri ne trarrebbero soltanto un ingiustificato disprezzo o una sciocca e superba presunzione, quasi avessero appreso qualche cosa di augusto.


 

In conclusione, parole come “evento, grazia, Vangelo, incontro, mistero…”, parole che evocano il “divino” sono materialisticamente identificate con “evangelizzazione, celebrazione, sacramenti, nuova evangelizzazione, annuncio, messa…”
In questa visione teologica è possibile determinare quando, come, dove incontrare il Signore; ci sono risposte a tutti i problemi dell’uomo, compresi quelli della vita e della morte, del dolore e dell’ingiustizia (la croce, il grande mistero, diventa la risposta a tutto: non ci sono misteri). La distanza dell’EVENTO da questa teologia sembra incolmabile.
La paura della chiesa di provocare sconvolgimenti nella sua organizzazione e nel suo pensiero rimane troppo grande. E questo per fedeltà ad una “memoria” legata ad una tradizione precisa. Decisivo sembra il ritorno per la chiesa ad un’altra memoria: quella degli “eventi” fondatori che la scrittura ha tramandato; una memoria fatta di rotture necessarie, dalla chiamata di Abramo a lasciare la sua terra, alla predicazione di Gesù sulla libertà dalla legge.
Perché le affermazioni roboanti che abbiamo sentito, siano credibili, occorre una nuova fiducia nello Spirito che fa nuove tutte le cose. Purtroppo un’istituzione preferirà sempre la ripetizione, non la novità. Solo la fede potrebbe fare la differenza, perché si tratta di prendere il largo sul mare dell’insicurezza, ma finalmente libero.

 

a cura di Gastone Pettenon e Antonio Uderzo


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