La Chiesa dei poveri


 

Paul Gauthier, uno dei primi pretioperai francesi, ha partecipato attivamente a tutte le sessioni del Concilio, al seguito del vescovo di Nazareth, mons. Georges Hakim. Presso le edizioni Qualevita, nel 1988, è stata pubblicata l’autobiografia di Gauthier dal titolo “E il velo si squarciò”. In una memorabile pagina di questo libro, così Paul racconta:
“Ti porterò con me al Concilio mi disse il vescovo —. Se gli altri vescovi risponderanno al tuo appello per una Chiesa dei poveri, risponderò anch’io. Ma se dovessi essere il solo a seguire i tuoi consigli, nulla cambierebbe nella situazione generale della Chiesa, che continuerebbe a restare la Chiesa dei ricchi”.
Se Gesù=Chiesa e Gesù=Poveri, dovrà conseguentemente essere Chiesa=Poveri. Nella realtà, invece, la Chiesa non si identifica con i poveri: vi è una frattura, uno strappo nel corpo di Cristo, uno scisma peggiore di quelli che hanno diviso la cristianità.

Chiedevamo che gli uomini di Chiesa rinunciassero alle loro ricchezze, perché potesse apparire come Chiesa di tutti e principalmente dei poveri.
Il nostro rapporto intitolato “Gesù, la Chiesa e i Poveri”, fu stampato in duemila copie da J.P. Delarge e successivamente riportato in “I Poveri, Gesù e la Chiesa”, con l’aggiunta di due capitoli: “I poveri” e “Nazareth e l’evangelizzazione dei poveri”. Ogni padre conciliare ne trovò una copia sul proprio leggìo, nella basilica di S. Pietro
(Paul Gauthier, E il velo si squarciò, 1988).

POVERTÀ E POTERE DELLA CHIESA

Mi trovo sul monte Morrone, in una celletta dell’eremo di Pietro Angelerio / Celestino V, un luogo dove vengo sempre con gli amici più cari e dove ho trascorso una intera giornata, nell’ottobre del lontano 1988, con Paul Gauthier. Ci univa la medesima venerazione per questa straordinaria figura di uomo che ha saputo unificare nella sua vita lo spirito benedettino e quello francescano, la scelta del monastero e dell’eremo con quella di una vita radicalmente povera, insieme ai più poveri. Una direzione di vita che lo portò, il 13 dicembre 1294, dopo appena tre mesi e mezzo dall’incoronazione a papa, alla clamorosa rinuncia al potere più grande che possa essere concentrato nelle mani di un uomo.
In questi luoghi in cui, nonostante i secoli, è ancora viva la presenza di Celestino V, Paul mi regalò una delle sue riflessioni più limpide, sincere e disarmanti.
«Penso che durante il Concilio sia stato commesso un errore molto grave. Abbiamo parlato della povertà della Chiesa, ma abbiamo dimenticato un problema ben più importante: il potere della Chiesa. Non ci siamo accorti che non si trattava solo di ricchezze, ma di potere; non ci siamo resi conto che la Chiesa ha accaparrato tutto il potere per se stessa: l’infallibilità, il papa che è capo di stato, che ha potere assoluto sulla Chiesa intera, che nomina i vescovi senza consultare il popolo, quel popolo che non conta nulla nella Chiesa. Nelle sue encicliche sociali il papa dichiara che la democrazia è la forma migliore per la società umana, ma guai a parlare di democrazia nella Chiesa. Durante il Concilio mi sono dato molto da fare perché emergesse l’immagine di una Chiesa povera ma ho quasi completamente dimenticato il problema del suo potere».

LA PROFEZIA

Il colloquio sopra riportato è soltanto un lampo delle intuizioni profetiche di Paul Gauthier. Quante volte, dopo la sua scomparsa, ho rivissuto la scena della parabola del ricco e di Lazzaro con le durissime parole di Abramo: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro!” (Luca 16, 29). Non ascoltiamo i profeti perché abbiamo paura della loro coerenza di vita, della loro semplicità, del loro annuncio della Verità. Quando un profeta muore, dovremmo avere l’umiltà e il coraggio di scovarne degli altri, perché ce ne sono, nascosti in mezzo a noi.
Per tornare a Paul, mi piace sottolineare un altro tratto del mio incontro con lui: era estremamente determinato, cocciuto, non cedeva di un centimetro sul terreno delle sue convinzioni, delle sue illuminazioni non sempre peraltro condivisibili, ma possedeva la grande capacità di porgerle con i tratti di una sconfinata tenerezza.
Sempre in quella giornata all’eremo di Celestino mi disse:
«Sarebbe un’illusione credere e sperare che qui in terra tutta la Chiesa sarà un tutt’uno con il popolo degli oppressi e degli sfruttati, tutta povera tra la gente povera. La tentazione della ricchezza e del potere sedurrà sempre la gente di Chiesa. Vi saranno sempre dei vescovi e dei preti per discutere come i loro predecessori, gli apostoli, su chi sarà il più grande. Ma ve ne saranno sempre altri che sentiranno il rimprovero di Gesù e l’appello a farsi ultimi e servitori di tutti. La frontiera tra questo piccolo numero rimasto fedele al Vangelo e la moltitudine dei cristiani sedotti dal denaro e dalla sete di potere, non passa tra gli individui, ma nel cuore di ciascuno».
Questa era, secondo me, l’unicità di Paul: individuare, denunciare, condannare il marcio delle situazioni e delle istituzioni senza però perdere il sorriso e la serenità e senza averne evidenziato l’aspetto positivo e la via per una possibile redenzione.

QUEL CHE RIMANE

Erano da poco passati dieci anni dalla morte di Ignazio Silone quando accompagnai Paul presso la sua tomba, a Pescina, qui in Abruzzo. Per rispettare i suoi desideri testamentari, anche noi leggemmo un piccolo brano da lui scritto come introduzione a “L’avventura di un povero cristiano”:
«Quel che nella mente rimane stando fuori da ogni chiesa o partito non può essere dichiarato in forma di credo o paragrafi… A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il Pater noster … e sopravvive anche la fedeltà al socialismo inteso come economia al servizio dell’uomo».
Quando, qualche mese prima, mi trovai a dover stilare una pagina conclusiva al libro di Paul Gauthier “E il velo si squarciò”, intrattenni con lui un lunghissimo colloquio telefonico in cui sostanzialmente gli chiedevo: “Nella tua vita, Paul, dopo tanto peregrinare, dopo diverse “traversate”, dopo varie tappe che ti hanno portato a maturazioni faticose ma sempre liberanti, che cosa rimane?”.
«Quel che mi rimane — egli rispondeva accalorandosi — è la fede nella indicibile presenza di Dio in me come nell’universo intero, una Fede che non può essere ingabbiata in nessun dogma, da nessuna istituzione. Rimane la convinzione che davvero “i puri di cuore sono beati”. Puri, cioè liberati dall’avere, dal sapere, dal potere, che vivono nella comunione fraterna universale e nella comunione con Gesù, il falegname di Nazareth, il crocifisso-risorto, il Verbo, vita di ogni essere, luce di ogni uomo.
Rimane una serena, illimitata fiducia in Gesù di Nazareth. Nel Suo nome, il mio compito è — come mi diceva anni fa Roger Garaudy — quello di dare un volto alla speranza degli uomini, il volto della pienezza umana, in tutte le sue dimensioni. E vivere secondo la legge fondamentale dell’essere, l’amore. La Croce me ne ha insegnato le rinunce. La Resurrezione i superamenti».

Per concludere, un prezioso ricordo: quando l’ho sentito l’ultima volta, prima che la malattia prendesse definitivamente il sopravvento, mi disse con voce già stentata ma sempre serena:
«Vorrei poter arrivare all’ultimo giorno della mia vita con la gioia del testimone e poter dire: ho vissuto, ho parlato ed ho salvato la mia anima».
Paul lo ha fatto. Adesso tocca a noi.

Pasquale Iannamorelli


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