Ci scrivono


 

I PRETI OPERAI, UN ESEMPIO DI IMPEGNO CRISTIANO ANTICOSTANTINIANO

 

Il giorno 8-7-2011, ho partecipato ad una riunione di un gruppo di preti operai della Lombardia, nell’eremo S. Paolo D’Argon.
L’ho vissuta come una giornata che si è innestata su una ricerca personale legata al pre-concilio, al concilio, al post-concilio. E’ stata un’ esperienza che mi ha spronato a riflettere e a misurarmi su un movimento che è stato pionieristico nei confronti del Concilio Vaticano II ed è stato una delle sicure bandiere del cattolicesimo progressista. Ha radicato in me la convinzione di quanto sia stato importante non solo dal punto di vista testimoniale, ma anche per la grande forza teologica che ha messo in moto e l’urto che ha avuto sulle punte più avanzate del cattolicesimo. Se oggi la chiesa è meno sorda alla voce della storia e ai suoi grandi terremoti (e spesso anche alle suggestioni della parola di Dio), lo deve a movimenti come questo (non a CL, a Opus Dei, che tra l’altro hanno fatto proprio il termine “movimento” in modo abusivo, avendo storicamente assunto un ruolo frenante, svuotante il Concilio Vaticano II con forti cedimenti verso la cultura integrista, che ha goduto di massicci appoggi in curia). I preti operai si sono mossi, in circostanze storiche dure, egemonizzate prima dalla seconda guerra mondiale, poi dalla guerra fredda, in una congiuntura mondiale in cui si misuravano duramente il mondo operaio e il padronato. Hanno operato in un clima ecclesiale plumbeo, marcato da istanze legate al Vaticano I, segnato dalla lunga stagione antimodernista, caratterizzata da derive papiste pesanti e da uno scivolamento politico marcatamente moderato, lontano dai poveri e disallineato rispetto ai loro più vivi diritti. Per capire la loro vicenda, la dobbiamo collocare nella giusta temperie storica, inquadrandola con molta onestà intellettuale.

Spesso con gli amici dibatto sul Concilio Vaticano II, su quella potente svolta o come la chiamerebbe il compianto prof. Alberigo una transizione epocale segnata da grandi discontinuità (interpretazione con la quale mi sento molto in sintonia; questione tormentata ma decisiva). Nell’attuale fase storica è in corso il tentativo di addomesticarla, di normalizzarla, di frenarla con grandi tensioni che percorrono la comunità ecclesiale; come spesso accade le riscosse conservatrici tentano di coprire le spinte progressiste che attraversano la storia e prima o poi incideranno su di essa. Io sono convinto che per capire il capovolgimento che è stato il Concilio, che ha avuto una grande presa sulla mia generazione, non possiamo prescindere da un’ esperienza come quella dei preti operai che hanno fecondato il Concilio, allo stesso modo in cui non possiamo prescindere dai movimenti liturgico, biblico, ecumenico, patristico o da esperienze come quelle di don Milani e don Mazzolari, piste di ricerca solitamente eluse e purtroppo sacrificate rispetto a studi schiacciati su altri fronti, meno problematici.

Entrando nel merito del Concilio Vaticano II, vi erano presenti tre posizioni che lo hanno segnato in modo acceso: quella di cristianità legata alla curia romana, minoritaria e vivacemente conservatrice; quella legata alla nuova cristianità, maggioritaria, intrecciata a Paolo VI; infine la chiesa dei poveri, cioè una chiesa post-costantiniana legata a papa Giovanni XXIII, Lercaro, Dossetti, ai preti operai, la parte più avanzata della maggioranza, le punte di diamante che hanno agganciato il futuro. Quello che mi intriga dei preti operai è l’incarnazione nelle loro vite di una concezione anticostantiniana dell’impegno cristiano nel mondo, che si esplica nella scelta della povertà come luogo teologico della rivelazione e nella proposizione di un ruolo sacerdotale non separato dai semplici battezzati. Pur costituendo un movimento che non è rimasto alla finestra, ma si è misurato con il capitalismo inumano che ancora ferisce le nostre vite, la loro interpretazione radicale o accrescitiva del Concilio è stata, ad uno sguardo attento, sicuramente meno politicizzata dei vertici ecclesiali, in quella stagione molto sbilanciati politicamente (filoamericani, appiattiti sulle istanze democristiane, realtà molto legate ai potentati economici).

Oggi viviamo un post-concilio tormentato e loro ci ricordano che, se vogliamo rilanciare le istanze più vive del Concilio, la comunità ecclesiale deve essere povera e si deve schierare con i senza voce (i senza storia), senza se e senza ma, con i calpestati a sostegno delle loro lotte. Se la spinta innovativa del Concilio è stata frenata, lo si deve imputare all’ accantonamento del tema della povertà.

I preti operai non sono stati e non sono utili idioti, ma sacerdoti che hanno ricordato alla chiesa che il vangelo non va seppellito, ma calato nelle durezze della storia, la quale, grazie a papa Giovanni, abbiamo imparato a considerare piena di fermenti legati alla risurrezione e quindi segnata da positività . Sono tornato a casa, dopo l’incontro con i preti operai, facendo mia la convinzione che la loro esperienza non sia esaurita, ma costituisca ancora un’alta battaglia. Il loro apporto è necessario per aiutare la comunità cristiana a non collocarsi al di fuori o al di sopra della storia e dei suoi conflitti, ma a mettersi nel cuore dei processi e a spendersi, come hanno fatto loro, ascoltando l’appello del vangelo, muovendosi in modo risoluto nel suo sentiero. La loro presenza testimoniale mantiene vivi i nodi più accesi del Concilio: i poveri, la pace, la storia, una chiesa sinodale, l’ecumenismo, la donna, il lavoro. Tutti problemi ineludibili.

Per questo i preti operai non sono il passato, ma il futuro. Ho avuto l’impressione di cristiani costruttori di storia, liberi e fedeli senza sudditanza, per questo sono un punto di riferimento cruciale per il cattolicesimo progressista. Hanno dato grandi direttrici che non vanno ridimensionate (le grandi battute d’arresto o i ripiegamenti in corso nella chiesa sono dovuti all’aver spento un interesse verso la chiesa dei poveri e non ci sono ricerche che possano essere feconde prescindendo da questo nodo cruciale). La loro esperienza è un grande esempio di chiesa che non si arrocca, ma si contamina con i pesanti problemi di tutti, senza giudizi taglienti verso il mondo contemporaneo, così come papa Giovanni XXIII non usava toni di disprezzo per il suo tempo. Se si vogliono capire le traiettorie fondamentali del Concilio Vaticano II o le sue migliori spinte, ci si deve cimentare anche con il loro vissuto, che ha alle spalle una lunga storia: sarebbe utile che i nostri giovani conoscessero questa decisiva direzione di marcia, per poterla calare in modo fertile nella loro vita. In fondo, se ascoltassimo con attenzione esperienze come questa, ci impegneremmo contro l’oppressione e metteremmo al centro la parola di Dio: avremmo una chiesa più spirituale e stemporalizzata, dentro il movimento degli esclusi come loro più fedele voce (c’è più teologia nell’esperienza dei preti operai che in molti pensatoi ecclesiastici). A me pare che l’urgenza di interrogarsi, dal punto di vista fattuale, sull’ esperienza dei preti operai, osteggiata ma cruciale, sia imprescindibile in questa stagione stagnante per la chiesa e innescherebbe sicuramente istanze positive per tutti.

In fondo dopo quarant’anni dal Vaticano II non possiamo solo chiederci che cosa il Concilio ci ha detto: dobbiamo chiederci cosa abbiamo fatto noi di quanto il Concilio ci ha detto, problema esperienziale legato alla ricezione, epicentro di tanti tradimenti.

 

Molli Mario Giuseppe


 

Share This