IN QUESTO MONDO A RISCHIO
QUALE CHIESA?
Bergamo / 13 giugno 2015
Seconda relazione
Ringrazio di questo vostro invito a “laboratorio” comune e apprezzo molto che nel vostro lavoro attorno al Concilio abbiate messo come punto di vista non secondario la questione delle donne: perché non è un tema secondario, di quelli che si affrontano “se resta tempo”, ma attraversa l’intero dando la possibilità di discuterne la qualità inclusiva, per tutti e tutte. Il punto di vista è quello della recezione.
1 – Un’immagine
Inizio con un’immagine: l’affresco di S. Maria in Trastevere che si trova nella cappella che il cardinale Mark Sittich Von Hohenems, italianizzato in Sittico Altemps, fece affrescare in memoria di uno dei suoi figli naturali, fatto giustiziare dal proprio zio, il pontefice Pio IV, per gli abusi di cui era incolpato. Raffigura la chiesa trionfante, con tanto di tiara, che distrugge l’eresia, mentre si svolge il concilio di Trento: il primo piano presenta un mondo tutto femminile, procace e discinto quanto basta per allattare con soddisfazione, mentre sullo sfondo una serie di neri prelati disposti a semicerchio sono fronteggiati da una presidenza cardinalizia in bianco e rosso sulla quale dalla parete si profila il nome di Pio IV. Certamente le donne vengono subito “dirette” verso la dimensione simbolica in cui sono immagine sia della chiesa di corretta dottrina che dell’eresia, a terra sconfitta, denudata e umiliata. Ma per chi guarda resta comunque un primo piano tutto femminile, uno strana e colorata sinodo (il calco dal greco vorrebbe il femminile, in questo caso lo conservo, poi tornerò al più contemporaneo maschile) di donne: quel dei due mondi è “fuori” scena, fuori contesto? Di fatto sembra di poter dire che le due prospettive sono tuttora presenti e continuamente si intrecciano. E questo non solo a livello del Sinodo: certo, non ci vuole molta fantasia per osservare, come da molte e da molti è stato fatto, che data la sua realtà episcopale, nel mondo cattolico, si trovano a parlare della famiglia soprattutto uomini celibi e di solito non giovani1. Non cambia di molto questo bilanciamento il fatto che fra i 51 uditori vi siano anche alcune donne, suddivise tra le mogli delle 17 coppie uditrici e tre suore, più un’unica coppia inclusa fra gli esperti. Si tratta di famiglie che fanno parte di organizzazioni istituzionali cattoliche di pastorale familiare.
Si tratta però di qualcosa di molto maggior portata e che attraversa diversi livelli di vita ecclesiale, anche quelli che si considerano progressisti – se così ci si può un po’ sommariamente esprimere – e da cui non ci si aspetterebbero meccanismo di sostituzione, rimozione e invio a registri simbolici. Spero che questa osservazione non sia intesa come demolitiva: in ogni caso mi sembra realistica. Rinuncio agli aneddoti personalmente raccolti – che non sono pochi, ma rischiano di far riconoscere a distanza i protagonisti e non sono adatti a un testo scritto e anche alle osservazioni provenienti direttamente dal Coordinamento delle teologhe Italiane, che presiedo, per lasciar la parola a un articolo recentemente apparso su Osservatore Romano2, in cui Lucetta Scaraffia sottolinea come anche iniziative che si presentano come innovative riescano a citare solo scritti di uomini, sancendo in questo modo l’invisibilità delle donne cui vorrebbero ovviare. Come ci è occorso più volte di dire, è proprio questo aspetto del fenomeno a denunciare la radicalità e la pervasività della difficoltà: a meno che non si debba concludere, come il tale cui accenniamo nello Studio del mese del Il regno, citato più avanti, che tranquillamente affermava che “quando una donna avrebbe scritto qualcosa che valesse la pena leggere, l’avrebbe citato”.
Per questo ritengo, seguendo una riflessione di Serena Noceti, che il punto di vista delle recezione del Vaticano II incroci in maniera significativa la relazione fra donne e uomini nella chiesa e la riflessione su di essa.
2 – Donne e teologia3
Fare il punto su donne e teologia significa entrare in un dibattito che per alcune/i è urgente, per altri è superato, per molti equivoco. Si pone tra l’altro su piani diversi: da una parte riguarda la teologia elaborata da donne, rispetto alla quale ci si chiede prima di tutto se esista e poi se se ne possano individuare caratteristiche peculiari o addirittura se sia opportuno ricercarle. D’altra parte porta con sé inevitabilmente l’interrogativo su cosa la teologia possa contribuire a dire sull’essere uomini e donne nelle chiese e nel mondo e in dialogo con quali saperi e paradigmi di pensiero provi a farlo. Queste note provano a entrare in questo orizzonte, condividendo la convinzione che la differenza sessuale sia il grande rimosso della nostra come di molte altre culture e che dunque portarla a parola sia operazione necessaria, oggi irrinunciabile anche per la teologia.
La questione femminile in teologia, se così si può dire, nasce in dialogo con i femminismi, che rappresentano un orizzonte magmatico e plurale, costantemente alla prova dei conflitti generazionali e delle proprie evoluzioni interne: spesso archiviati dalle generazioni più giovani come cosa sorpassata e in ogni caso quasi sempre aborriti nel più largo contesto cattolico. Questo ultimo aspetto è così pervasivo e aggressivo da spingere molte volte le stesse teologhe, anche quelle che mostrano gratitudine nei confronti dei femminismi, a circonlocuzioni varie, che vanno dall’utilizzo di “donne” a quello di “femminile”.
Alla prospettiva scientifica si unisce poi una sempre più insistente domanda pratica: sono molti anni che negli ambienti ecclesiali è sorta una domanda specifica, a volte romantica, altre polemica, spesso utilmente curiosa: dai più svariati convegni alle capillari iniziative parrocchiali si chiede una parola di donna. Oltre a uno spirito dei tempi su questa richiesta influiscono gli interventi magisteriali, il cui avvio ormai remoto si può porre nella Pacem in Terris e che ha poi assunto una fisionomia peculiare durante il pontificato di Giovanni Paolo II. La questione ha avuto però un’impennata a partire dalle dimissioni di Benedetto XVI, che hanno dato avvio a dibattiti, interviste, iniziative a tutti i livelli, come se la breve interruzione avesse aperto domande sopite eppure presenti. Infine è ora papa Francesco a muovere e promuovere il dibattito, con le sue parole che sono insieme apertamente innovatrici e affabilmente conservatrici: vanno infatti dal segnalare la necessità di una presenza più autorevole delle donne, coinvolgendole anche in posti di responsabilità ecclesiastica – cosa di cui peraltro si vedono i primi effetti4 – all’invito a elaborare una “teologia della donna”, che, così espressa, appare molto distante dall’orizzonte di molte teologhe. Il tutto accompagnato da una posizione apparentemente senza appello rispetto al dibattito sull’ordinazione presbiterale femminile nella Chiesa Cattolica. Non è quest’ultimo il terreno di confronto più acceso, che sembra muoversi soprattutto attorno alle categorie utilizzate, ma ha una rilevanza non piccola, anche ecumenica: basta pensare all’accorato appello del Primate di Canterbury, rev.do Welby, che dopo la decisione anglicana di ammettere donne anche nell’episcopato, ha scritto «Santità questo non ci divida».
3 – L’estensione e lo spessore / comunità delimitata o centrata5
Signore ognuno di noi è a una delle tue frontiere […] noi avevamo pensato che tutti i paesi fossero segnati sulle carte geografiche e che le linee nere che indicano le ferrovie e i battelli fossero sufficienti per andare dagli uni agli altri. Vivendo in mezzo agli uomini, noi abbiamo imparato il contrario. Se ci sono carte geografiche in estensione, ce ne vorrebbero in spessore (Magdeleine Delbrêl, Missionari senza battello)
L’espressione riportata in esergo, ormai abbastanza nota, è tratta da Missionari senza battello uno scritto del 1943: di fronte alla partenza dei missionari dal porto di Le Havre, Magdeleine riflette su chi salpa e su chi resta, come parte di un’unica vita nello spirito, così come nell’ancora più famoso noi gente di strada del 38 metteva a confronto l’uscio che si apre sulla strada con la porta della clausura che si chiude, affermando uno spirito che soffia in ogni luogo. In questo modo e a suo modo accompagna un’epoca, quella della Missione di Francia. Queste intuizioni, come quelle di Maria dell’Eremo di Campello o di piccola sorella Magdeleine di Gesù6 fanno parte di un modo di vivere la evangelizzazione che in certo senso prepara e invoca il Concilio. E’ tuttavia con il Vaticano II che tentativi di questo genere diventano esperienza ecclesiale largamente disponibile nell’ordinarietà della pastorale, anche se certo non sempre e non ovunque. In questo senso ciò di cui qui vogliamo rendere conto costituisce un luogo non accessorio di recezione del Concilio.
Secondo G. Routhier il momento della recezione fa parte dell’evento concilio, ma per coglierne la portata occorre rovesciare la prospettiva: anziché esaminare l’atto di trasmettere, si considera piuttosto l’atto di ricevere»7. Se oggi si può parlare di tempo degli eredi8, è importante considerare parte dell’eredità trasmessa anche il mondo di pratiche ispirate dal Concilio. Vi sono certamente alcune questioni “sensibili”, che rappresentano luoghi simbolici e identitari, quali la liturgia e la catechesi9, vi sono tuttavia luoghi più periferici ma importanti, nella misura in cui sono recezione della possibilità di abitare i confini rimando centrati10. Vorrei sostenere che la pratica pastorale di condivisione di vita con Sinti e Rom11 è uno di questi luoghi di recezione: a livello italiano e anche nella chiesa veronese, nella quale, in diversa proporzione nel corso degli anni, si sono intrecciate iniziativa di base e sostegno episcopale. Presentiamo qui alcuni tratti del percorso storico che prende avvio negli anni ’70, per tentare poi di individuare le coordinate pastorali e teologiche di questa esperienza, nonché in termini ancora più larghi un punto di vista sulla realtà.
4 – Un modello ecclesiologico
Nell’ottica di LG 26, in ogni comunità «sebbene spesso piccola povera e dispersa» è presente la Chiesa di Cristo, è presente Cristo. Proprio per questo, ogni pratica pastorale interagisce anche con diversi modelli di chiesa, configurandoli in forme particolari, tesa tra quanto vive e la forma cui tende. In questo senso all’epoca del Sinodo diocesano, abbiamo sentito profonda consonanza con quanto si veniva esprimendo, in particolare con il volto di una chiesa discepola, sinodale, compagna di viaggio e solidale12.
Questo largo orizzonte mi sembra si possa concretizzare attraverso alcune caratteristiche: stima per l’impegno comune anche come presa di distanza da protagonismi esasperati; corresponsabilità de facto fra laici e presbiteri, estroversione nel senso di una pratica ecclesiale non ecclesiocentrica, che guarda oltre la comunità ecclesiale. Ritengo anzi che sia proprio quest’ultima caratteristica a portare con sé anche le altre due, che non sono qui proposte moralisticamente, come se si trattasse di essere in qualche aspetto migliori di altri, ma come forma assunta nel posizionamento liminale e a partire da esso13. A questo proposito, può essere utile il confronto con quanto espresso da Wenger attorno alle comunità di pratica:
«Ho caratterizzato le comunità di pratica come storie condivise di apprendimento. Con il tempo, queste storie creano discontinuità tra chi ha partecipato e chi no. Tali discontinuità vengono rivelate dall’apprendere insito nel loro attraversamento: il passaggio da una comunità di pratica all’altra può comportare una vera e propria trasformazione. Ma la pratica non crea solo confini. Nello stesso momento in cui si formano dei confini, le comunità di pratica sviluppano soluzioni per mantenere i collegamenti con il resto del mondo»14.
In questo senso, spesso chi abita le periferie15 e partecipa di più contesti rappresenta un fattore di intermediazione, tale da permettere non solo molteplici interfacce e connessioni ma anche una riconfigurazione del centro e delle stesse dimensioni ideali, contribuendo a cambiamenti che i leaders, troppo vincolati a elementi rigidamente identitari, non riescono a intravedere. Ulteriormente:
«I termini confini e periferie si riferiscono entrambi ai “limiti” delle comunità di pratica, ai loro punti di contatto con il resto del mondo, ma enfatizzano aspetti diversi. I confini – ancorché negoziabili o taciti – evocano discontinuità, linee di separazione tra l’interno e l’esterno, appartenenza e non appartenenza, inclusione ed esclusione. Le periferie – ancorché ristrette – evocano continuità, aree di sovrapposizione e connessione, finestre e luoghi di incontro e possibilità organizzate e informali di partecipazione»16.
Ritengo che sia, pertanto, il posizionamento – non solo inteso geograficamente, ma anche culturalmente, come stima di luoghi di confine – a determinare o quanto meno favorire le altre caratteristiche: la situazione complessa e in continuo cambiamento richiede lavoro e riflessione comune. Non si può dire esente da rischi: la situazione di “originalità” che innegabilmente comporta può anche veicolare il contrario. Le comunità legate a questa pastorale in Italia – non mi riferisco solo a Verona, ovviamente, ma all’insieme descritto sopra – hanno tuttavia cercato di evitare la “tentazione dell’eroe”. Di questa modalità, cui in parte devono anche il fatto di essere quasi totalmente sconosciute, sono tuttora molto convinte. Nella stessa direzione va anche la pratica di corresponsabilità: non sono situazioni in cui si possano semplicemente riprodurre modalità già date e non c’è neanche, si potrebbe dire, il tempo e l’interesse di star a definire ruoli come spartizione di territori di caccia: la pratica comune riconfigura le modalità reciproche.
5 – Microfisica della resistenza
In fondo queste ultime considerazioni conducono l’intera riflessione nel registro della grazia e dunque della gratitudine: un’esperienza di pastorale ma più ampiamente di vita che è stata ed è più una felice occasione che una faticosa ascesi. Il molto ricevuto non è neanche minimamente paragonabile all’impegno profuso, che al confronto appare piccola cosa, un’ora di veglia della notte17.
Di fatto gli scenari intravisti non riguardano solo la comunità ecclesiale, ma la possibilità stessa di una convivenza tra persone diverse. Si potrebbe applicare qui l’idea avanzata da Judith Butler: quella di “convivenza non scelta”, da lei declinata attraverso le figure bibliche della dispersione, dell’esodo, dell’esilio: compito possibile di un impossibile, dove “impossibile” sta a indicare un orizzonte di promessa, che si potrebbe dire escatologico. Compito d’altra parte raccoglie la tensione etica che ingiunge non rassegnazione all’ingiustizia, fosse anche di una persona sola. In A chi spetta una vita buona? tutto questo viene contrapposto a una impostazione biopolitica: non si può unicamente vedere come funziona una valutazione differenziale – fare cioè una una microfisica del potere – ma si deve anche falsificare l’orizzonte che la produce tramite una microfisica della resistenza18.
Dallo sguardo ampio che questa consapevolezza consente emerge una consegna di speranza, in cui la continuità con il modello del Concilio si esprime in forma specifica: sguardo non volto all’indietro, ma aperto al futuro e, in questo concreto liminale posizionamento, atto di grata fattiva recezione.
CRISTINA SIMONELLI
Una bibliografia:
http://www.teologhe.org/?page_id=12298
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Una chiesa di donne e di uomini, a cura di Cristina Simonelli – Matteo Ferrari, Edizioni Camaldoli 2015
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Letizia Tomassone, Crisi ambientale ed etica. Un nuovo clima di giustizia, Claudiana, Torino 2015
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Antonietta Potente, E’ vita ed è religiosa, Paoline, Milano 2015
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Cristina Simonelli, Guida alla lettura, in Papa Francesco, Laudato si, Piemme 2015, 7-53.
1 Prendono parte al Sinodo complessivamente 270 padri sinodali: 42 ex officio (15 Patriarchi, Arcivescovi Maggiori e Metropoliti delle Chiese metropolitane sui iuris delle Chiese Orientali Cattoliche; 25 capi dei dicasteri della curia romana; il segretario generale e il sotto-segretario del sinodo dei Vescovi), 183 ex electione e 45 ex nominatione pontificia. Tra i membri si contano 74 Cardinali (tra cui un patriarca e 2 arcivescovi maggiori), 6 patriarchi, 1 arcivescovo maggiore, 72 arcivescovi (di cui 3 Titolari), 102 vescovi (tra i quali 6 ausiliari, 3 vicari apostolici e 1 emerito), 2 preti diocesani (entrambi Parroci) e 13 Religiosi. La provenienza dei Padri dai cinque continenti è così ripartita: 54 dall’Africa, 64 dall’America, 36 dall’Asia, 107 dall’Europa e 9 dall’Oceania. Inoltre, parteciperanno altri invitati provenienti da diverse culture e nazioni: 24 esperti o collaboratori del segretario speciale, 51 uditori e uditrici, 14 delegati fraterni. Ci sono poi 14 delegati fraterni in rappresentanza di altre chiese, 24 esperti, 51 uditori e uditrici. Tra gli uditori ci sono anche 17 coppie di sposi, e una coppia è anche tra gli esperti.
2 Questa forte presenza femminile, ormai essenziale per il funzionamento della Chiesa sul territorio, fa riflettere. Ne ha colto le necessarie e possibili conseguenze Giuliano Zanchi, nell’ultimo numero della «Rivista del clero italiano», con la proposta, proprio a partire da questa ormai indispensabile collaborazione, di dare nella vita della Chiesa uno spazio più ampio di tipo decisionale e consultivo alle donne.A vedere i dati a cui si è accennato all’inizio, la proposta agli occhi di molti sacerdoti può sembrare coraggiosa. In realtà arriva molto in ritardo, forse troppo, per garantire alla Chiesa la collaborazione delle giovani.Sicuramente l’intenzione di don Zanchi è buona, anzi ottima, ma che il suo testo arrivi in ritardo rispetto alla realtà è dimostrato anche da un altro fatto: nel suo articolo non cita neppure un libro scritto da una donna, anche se certo li conosce, ma solo saggi di uomini, come Armando Matteo e Ivan Illich.. È per lo meno curioso che, nell’affrontare un tema sul quale le donne hanno scritto tantissimo — affrontando la questione da ogni punto di vista, e avanzando tante proposte concrete di cambiamento — non si sia fatto riferimento a nessuna di loro, ma si sia preferito parlare di un libretto di taglio sociologico e di un interessante studio antropologico (ma vecchio di mezzo secolo), scritti entrambi da uomini. È un dato di fatto rivelatore, che dice molto sull’invisibilità delle donne nel mondo dei chierici. E rivela anche un atteggiamento che, pur mascherato, rimane inevitabilmente paternalistico (Lucetta Scaraffia, Osservatore Romano 25 settembre 2015).
3 Questo paragrafo è uno stralcio dal mio articolo in Studio del Mese, Dire la differenza senza ideologia, Il Regno Attualità 1/2015.
4 Ad esempio la nomina di Luzia Premoli a Propaganda Fide e di Nuria Calduch e Bruna Costacurta nella Pontificia Commissione Biblica.
5 Riporto qui un ampio stralcio di una mia riflessione pubblicata in Esperienza e Teologia
6 Magdeine Hutin: http://www.piccolesorelledigesu.it/?page_id=132
7 G. ROUTHIER, Il Concilio Vaticano II. Recezione ed Ermeneutica, Vita e Pensiero, Milano 2007, 46.
8 G. ROUTHIER, Un Concilio per il XXI secolo. Il Vaticano II cinquant’anni dopo, Vita e Pensiero, Milano 2012, VII.
9 «Nel periodo post-conciliare la chiesa ha conosciuto una rottura di equilibri a tutti i livelli: gran parte del suo diritto era diventata obsoleta, al punto che si è potuto parlare, almeno in certi settori dell’azione ecclesiale di vacatio legis. Risultavano decostruite anche pratiche che riguardavano il culto e la liturgia, l’organizzazione e l’azione pastorale, l’esercizio del governo ecclesiale, la morale… A questi cambiamenti/decostruzioni sul piano delle pratiche corrispondevano modificazioni/decostruzioni a livello simbolico. Due ambiti della simbolica cattolica – ai quali aggiungeremo un terzo – possono essere giustamente analizzati come esempio chiarificatore di tutta questa situazione: la liturgia e la catechesi. La liturgia – e tutte le forme di espressione artistica implicate – è un bell’esempio di questo processo di decostruzione. E’ questo infatti il luogo per eccellenza nel quale la chiesa si esprime, si simbolizza, si manifesta, come afferma SC.. La liturgia è un luogo istituente fondamentale per la chiesa. Modificare la liturgia vuol dire, di colpo, arrivare a toccare il sistema simbolico del gruppo cattolico, vuol dire introdurre delle modificazioni nell’idea di Dio, del prete, della chiesa. La liturgia si rivela come il primo luogo in cui la chiesa si esprime mettendo se stessa in scena, e non è un caso che il Vat II abbia cominciato da una presa di posizione sulla liturgia, che gli ha permesso di rafforzare la riflessione ecclesiologica che si sarebbe sviluppata in seguito» (Routhier, La chiesa dopo il concilio, Qiqaion 2007, 29-31). Interessante anche l’idea di Serena Noceti, Un “caso serio” della recezione conciliare: donne e teologia, in “Ricerche Teologiche“ 13/1 (2002) 211-224, recentemente ripreso da Massimo Faggioli, Concili. Tra testi e contesti, in Avendo qualcosa da dire, a cura di M. Perroni e H, Legrand, Paoline, Milano 2014, 75-83.
10 Ancora Gilles Routhier, Un Concilio per il XXI secolo. Il Vaticano II, ieri e domani, in Id., Un concilio per il XXI secolo. Il Vaticano II cinquant’anni dopo, ed. Vita e Pensiero, Milano 2012, 56 [intero: 53-66]
11 Il termine “zingari”, che ha dei corrispettivi in tutte le lingue europee, è una categoria sintetica [politetica] che si riferisce con uno stigma negativo a gruppi dalle diverse autodenominazioni, la più frequente delle quali è Rom. Utilizzo il termine in senso comune, senza badare alle sottodistinzioni e anche utilizzando il maschile per l’intero (romnia ne è il femminile). In Italia e dunque anche in Veneto una parte consistente di loro si autodenomina Sinti. Il rapporto UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscrimazioni Razziali) nel documento che delinea le strategie di inclusione 2012-2020, date in risposta alla sollecitazione della Comunità Europea, riferisce la stima complessiva tra 110.000 e 180.000 unità, pari allo 0,23% della popolazione nazionale. Per la situazione in Veneto, cfr. La pastorale Rom/Sinti nel Triveneto, in Il Triveneto e i Migranti, [Quaderni MIgrantes 3/2014], 65-80.
12 Diocesi di Verona, Il volto di chiesa che emerge dall’esperienza sinodale, in Sinodo. Che cosa cercate?, 151-156.
13 Si rimanda nuovamente al contributo di Routhier, Un Concilio per il XXI secolo. Il Vaticano II, ieri e domani, in questa stessa rivista.
14 Etienne Wenger, Comunità di pratica, Raffaello Cortina, Milano 2006, 121.
15 Il termine “periferia”, utilizzato come cifra generale di un posizionamento è oggi rilanciato in maniera solo poco tempo fa inimmaginabile da papa Francesco! Molti altri gli elementi di vicinanza all’orizzonte di Evangelii Gaudium: tra gli altri si vedano in particolare le linee programmatiche (nn.19-49), e i paragrafi dedicati all’inculturazione (nn. 68-75)
16 Wenger, Comunità di pratica, 138.
17 Cfr. Francesco Cipriani, Una pastorale possibile, in “Servizio Migranti” 5/2003, 449-454.
18 Judith Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto pubblico, a cura di O. Guaraldo, Meltemi 2004, con prefazione di Nicola Perugini cui si deve la felice contrapposizione delle due “microfisiche”. Significa concretamente anche prendere parola quando i diritti vengono violati: si veda tutto il dossier sulla schedatura etnica a Strada La Rizza: cfr L’Arena 06/03/2009, p 11, caso ripreso in stampa nazionale, nonché nel Rapporto 2009 (Italy Census Memo) dell’‘European Roma Rights Centre (ERRC), n. 36; 63 presentato alla Commissione Europea per Giustizia, Libertà e Sicurezza.