Ricordiamo


 

Quando sono tornata a casa la sera di martedì 19 gennaio mi sono sentita nutrita dal lungo pomeriggio trascorso insieme ai tanti che si erano riuniti per ricordare Don Beppe. L’idea era partita poco prima di Natale: Luigi non si voleva trovare impreparato al primo anniversario della morte di Beppe e aveva fatto una riunione coni perrocchiani dei Sette Santi Fondatori per decidere il da farsi. Erano incerti fra una messa parrocchiale allargata e l’organizzazione di un evento cittadino. Così una sera a cena, in Chiesetta, io e Luigi ne abbiamo parlato: erano giorni in cui la nostalgia di Beppe affiorava prepotente e il cosa fare è scaturito direttamente dal cuore. Abbiamo pensato di organizzare una fiaccolata, poi una pausa per scambiarci una memoria viva di lui ed infine, a concludere la serata, la proposta di mangiare insieme, in tanti.
Una fiaccolata significa tante cose, fra le quali due emergono immediate: cercare la pace: camminare insieme, intrecciare la spinta ideale con il corpo, in maniera semplice, popolare, che va diritta al cuore. Un modo di raccontare Beppe, il suo stile di vita non con le parole ma con lo stare uniti. Quel martedì l’andare lento della gente ha raccontato il nostro riappropriarci delle strade con una manifestazione che si è rivelata la più numerosa della città dopo quelle degli anni ‘70.
Siamo partiti alle 18 dalla Chiesetta del porto, in testa al corteo vi era un grande striscione: “Beppe, aiutaci a sognare”, dietro al quale ci siamo incamminati in ordine sparso. Qualcuno distribuiva le fiaccole e poco dopo le luci, unite a un odore intenso di cera buona, hanno cominciato a punteggiare il buio.
C’era un po’ tutto il mondo dell’associazionismo, ma sopratutto le persone singole, i tanti che lo hanno conosciuto, a centinaia. Il coro dei ragazzi della parrocchia con un paio di chitarre cantava, via via, canti di pace, ma la loro voce, nonostante la buona volontà si perdeva nell’aria. Luigi si dava da fare per vedere che tutto si dipanasse come doveva, senza inciampi. Abbiamo percorso le vie della Darsena mentre le luci si riflettevano nell’acqua del canale e ci siamo fermati alle botteghe dove Beppe lavorava: quella della CREA dove si impagliano ancora le seggiole e quella accanto, l’Archeggiola, la bottega d’angolo alla quale ha dedicato tante energie. Erano ambedue illuminate ed addobbate per l’occasione, come le barche quando si pavesano per una festa. La seconda, specie, con la grande bandiera internazionale dentro la quale riposava quella della pace, un fascio di paglia ed una forma di pane appoggiato vicino, parlava vivamente di lui.
L’altra sosta è stata davanti al Comune: avevamo chiesto al sindaco di accoglierci lì davanti, magari con un discorso. Ma lui aveva preferito unirsi fin dall’inizio, ufficialmente, con la fascia tricolore ed i vigili con il gonfalone (c’erano anche i volontari della Croce Verde e dell’Avis con i loro gonfaloni) e così al posto del discorso c’è stata una piccola cerimonia significativa, il sindaco ha ammalnato la bandiera del comune ed innalzato quella della pace.
Poi ci siamo incamminati nuovamente per arrivare alla Chiesa di S. Andrea, una delle più grandi della città che avevamo pensato adatta ad accogliere molte persone. Fra l’altro S. Andrea era stata la chiesa parrocchiale della Darsena, prima che con la nomina di Don Beppe a parroco lo divenisse la chiesa dei Sette Santi Fondatori (dove i pretioperai hanno celebrato la messa durante il convegno di maggio).
Lì ci siamo riuniti per sostare insieme con tranquillità a scambiarci ricordi di lui: accanto all’altare maggiore Luigi aveva sistemato la mattina una grande vela bianca. Ha iniziato a parlare Renzo Fanfani, al quale avevamo domandato di offrire una prima elaborazione della vita di Beppe, dopo di lui si sono succedute molte persone, tutti hanno parlato fuori dai canoni, con il cuore in mano.
Verso le otto di sera ci siamo ritrovati per mangiare insieme a pochi metri di distanza, in un locale usato per la mensa dei poveri (una sera per settimana, a turno, la Caritas delle diverse parrocchie vi prepara la cena e la distribuisce).
Avevamo pensato di riunirci lì quasi a dare il segnale di voler trasformare quelle quattro mura da luogo dove esiste chi dà e chi riceve in un momento di intreccio intenso di vissuti, semplice, senza barriere e ricco di affetti. Un passaggio dalla realtà del povero a quella del popoio, una maniera di stare insieme simile a quella della fiaccolata, voce di gente che ama lo scambio vitale.
Tramite il passa parola e la stampa locale avevamo sparso la voce che chi voleva fermarsi a cena portasse qualcosa da mangiare e così, già prima della flaccolata, le lunghe tavole si erano riempite di vivande. E abbiamo potuto mangiare insieme e bere alla salute di Beppe, in piedi, stretti come sardine, ma col cuore allargato dalle tante mani strette, dagli abbracci, dai saluti fra amici; qualcuno era venuto fin da Firenze e perfino dalla Val d’Aosta per poter trascorrere con noi quella giornata…

 

Maria Grazia Galimberti


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