Sirio Politi / Scritti del periodo 1956-1959 (1)


 

Nere di ferro, nella violenza del sole di piena estate sono macchie di ombra nel gioco abbagliante dei colori del mare azzurrissimo, del frangersi bianco delle onde, sugli scogli del moletto e sulla spiaggia fiorita di ombrelloni e di bagnanti.
Sono macchie nere di sofferenza, di fatica, quasi sommerse e vinte dallo splendore all’intorno della vita tranquilla distesa sulla sabbia, immersa nell’abbraccio dolcissimo del mare, cullata sulle onde rabbrividite dal maestrale. Ma l’aria fresca del maestrale non arriva nei doppifondi, surriscaldati dal sole di agosto sulle lamiere di ferro e affogati dal fumo della saldatura elettrica e dei cannelli dei tagliatori. Martellano il cervello i martelli pneumatici in risonanze come un gridare di torture, nella immensa cassa sonora della nave di ferro, ritmati dai colpi delle pesanti mazze dei carpentieri.
Li vedo sbucare fuori, ogni tanto, neri e dalle tute sdrucite per gli schizzi della saldatura, sgusciando dai passi d’uomo, i saldatori, i carpentieri, i manovali: sbaluginano gli occhi come se salissero su dall’inferno, accecati dal sole, il sudore accarezzato dal maestrale, come se sognassero, e girano lo sguardo sull’orlo della spiaggia, là sotto, fiorita di corpi vivi ed accesi sotto il sole, freschi del frangersi del mare sulla bàttima.
Ogni tanto per motivi di lavoro salgo fin lassù, sul ponte di quelle macchie nere che tremano di calore nel sole e ogni volta cerco di capire qualcosa dell’inferno e del paradiso di questo povero mondo. Penso a quel libro “I santi vanno all’inferno”, ma specialmente e in modo appassionato cerco di pensare a Gesù Cristo.
Lavoro da carpentiere tracciatore. Sono fra lamiere e longarine di ferro dalla mattina alla sera. Sempre in piedi, chinato su lamiere piccole come fazzoletti o grandi come lenzuoli, sotto il capannone o fuori all’aperto, a tracciare segni, prendere misure, a punzonare la tracciatura a forza di martello e bulino.
E spesso sono stanco da non sapere come arrivare all’ora dell’uscita. Mi metterei volentieri in ginocchio per il sollievo di piegare le gambe, o spesso farei volentieri una corsa per raddrizzare la schiena e sgranchire le gambe dopo ore di lavoro rincrocchiato per terra a martellare tracciature che non finiscono mai.
E il mio lavoro è dei più leggeri, che quasi mi dà l’impressione di essere privilegiato. E’ nulla in confronto di altri lavori: vi sono lavori che sanno terribilmente di martirio, di tortura. In condizioni esterne impossibili, fisicamente logorati, con un ritmo senza soste o appena un respiro come rubato, gli uomini sono abbruttiti, disumanizzati. Anche a guardarli in faccia si vede gente provata, indurita. Come mangiata da un lavoro che si prende tutto l’umano per lasciare soltanto pura animalità. E la vita di lavoro è così: vi è soltanto il consumarsi del tempo, il logorarsi delle forze, della vita. Lento e continuo, inevitabile come l’andare di un fiume al mare.
“Siamo degli schiavi” è il discorso di tutti i giorni, degli schiavi legati al lavoro dalla catena del bisogno, e fra gli schiavi nulla è importante se non proprio la schiavitù. Tutto il resto che importanza ha?
L’anima è come svanita nei corpi oppressi, schiacciati dal lavoro troppo materiale: si avverte soltanto per i vuoti spaventosi che ogni tanto si aprono a voragine scavata dai problemi del dolore, dell’ingiustizia, della morte… I corpi rimangono soli quando la macina del lavoro deve girare, a costo di tutto, perché c’è bisogno soltanto di forza materiale, bruta. Di resistenza alla fatica, di insensibilità, quasi di disumanità. Ogni problematica di valori umani quanto più si spenge meglio è: è come una liberazione. Chi lavora ha bisogno i conquistarsi una pace che gli permetta di vivere nella condizione disumana in cui deve vivere, e quindi l’anima conviene lasciarla morire.
E’ per questo che il mondo operaio è così portato alla concezione materiale della vita: è per poter essere felice in qualche modo, cioè è per poter tirar avanti. Ogni altro problema all’infuori dell’anche pochi, anche maledetti, ma subito, aggraverebbe, appesantirebbe la situazione: meglio lasciare che metà di se stessi sia uccisa purché l’altra metà possa vivere. E vivere in pace.
Perché in fondo per chi deve vivere una vita da animali da soma è possibile vivere in pace soltanto vivendo una vita da animali da soma. “Il lavoro nobilita l’uomo e lo rende simile alla bestia” è il ritornello amaro sempre in bocca agli operai.
Li guardo quei volti così duri a volte, tesi nello sforzo della fatica e mi riesce difficile immaginarli sorridere. Li incontro giù nei doppifondi, alla luce di lampade — e fuori è il sole accecante di agosto là sulla spiaggia, sulla distesa lucente del mare — in penombre di buio e di fumo, a lampi accecanti come di una tempesta, nel friggere della saldatura elettrica e pare pioggia che scroscia, rinfagottati come straccioni e è un caldo terribile, soffocante, e cerco in loro l’anima. La somiglianza di Dio. I figli di Dio.
Non so quanto li amo. Li amo così come sono, con una tenerezza materna. E li porto tutti nell’anima mia. E non solo questi fra cui lavoro, ma tutti, tutti, come se fossero qui a battere il martello insieme a me, a consumare le ore, logorare la vita su lamiera di ferro, perché ne nasca una nave e ne vengano fuori tanti milioni per il padrone del cantiere e per quelli che saranno i padroni della nave.
Tutti gli operai incatenati dal salario.
Tutti i figli di Dio disfatti da un lavoro troppo materiale.
Tutti i redenti da Gesù schiacciati dallo sfruttamento del bisogno del pane quotidiano.
Come posso pensare che anche un solo colpo di martello vada perduto? Che anche una sola goccia di sudore cada, succhiato inutilmente dalla terra? Che il morire di queste anime, oppresse dal peso della materia, sia senza redenzione?
Se io arrivassi a pensar questo, se qualcuno me ne convincesse, credo che ne morirei di dolore. Non saprei più cosa farmene del mondo, della vita. E getterei via tutto, anche Dio.
Perché non saprei che farmene di Dio se non sentissi e vedessi l’Amore scendere dentro a dare senso e valore ad un vivere che è un morire ad ogni istante. Specialmente in questa gran parte di umanità fatta di povertà, di sofferenza, di sacrificio di sé, di un morire per vivere e far vivere i propri figli.
E’ questo Amore che ha fatto nascere in una stalla, vivere di lavoro, campare senza possedere un sasso dove posare il capo e morire in Croce, il Figlio di Dio.
Ogni mattina con la mia Messa nascondo in questa realtà di sacrificio dell’umanità che lavora, il Mistero di quest’Amore fatto carne e sangue di Dio attraverso Gesù Cristo e poi vado in cantiere perché vi rimanga viva e presente la continuità di questa incarnazione di Dio attraverso la mia carne e il mio sangue di sacerdote.
Non è possibile dire quello che spesso in quelle ore di profondità interiore e di silenzio totale, nonostante il rumore assordante del cantiere e la spossatezza fisica per via del lavoro, mi passa nell’anima. Mi sento spaventosamente povero e inutile, ma spesso mi pare d’essere sponde di una fiumana infinita.
Un desiderio immenso come tutto l’universo, una preghiera, un chiedere con gli occhi, uno scongiurare con tutta l’anima, un implorare dolce e calmo con dentro una sofferenza e una gioia terribili… perché io so quanto l’umanità ha bisogno di Lui. E davanti a Dio io non sono più io, sono loro, sono tutti.
E’ terribile essere così piccoli, così nulla e sentirci portati via dall’Infinito. E vengono voglie da desiderare di morire perché finalmente tutto si compia.
A volte mi domando in quelle lunghissime ore di lavoro, vedendomi mangiare così le giornate, se devo continuare a fare l’operaio e perfino se ne vale la pena.
Su un piano umano sono assolutamente zero. È come se non fossi. Mi pare di essere a volte soltanto stanchezza. E rimangono vivi e spesso brucianti problemi di valori umani, di carne e di sangue.
Sono tanto solo e con una voglia infinita di Amore, di una donna, di figli, di qualcosa di caldo, di vivo. Qualcosa di concreto, da poter vedere con gli occhi e toccare con mano, stringere al cuore. Non è sentimentalismo e nemmeno sessualità, anche se è tutto questo. E’ l’insieme della vita, è senso di pienezza, è voglia terribile di autenticità, di completezza. Di lasciarmi andare a tutta la dolce poesia della vita e delle cose. Di questo mondo che sento bellissimo. Di tutto quello che è sotto il cielo. Dai fili d’erba, alle montagne, al mare, alle stelle.
Sono solo in questa mia povera strada che non so dove mi porterà perché nessuno ne conosce il tracciato e non trovo amici ai quali domandare qualcosa che mi aiuti.
Ogni sera mi sorprendo come di un miracolo, di essere arrivato in fondo ad una giornata e mi torna in mente quella preghiera: Signore, ti ringrazio che anche per oggi è vinta. Ma mi rimane dietro — e cresce il vuoto sempre più — una giornata che io non conosco più, di cui non so niente, nella quale non ci capisco niente e di cui non posso che dire: non ho concluso nulla.
Di queste giornate è fatta la mia vita di operaio.
E allora lo smarrimento cresce, come trovarsi in un deserto, la sera, a riaspettare il sorgere del sole senza speranza che il giorno dopo qualcosa succeda di diverso dalla solita solitudine e dell’arsione spaventosa per il bruciare del sole.
Non mi rimane che una cosa sola, ma a quest’unica cosa sono attaccato come alla radice della mia vita: che c’è Dio e è per tutti e quindi anche per me.
Ora vado a letto: sono quasi le undici. Preparo per la Messa di domattina e anche la colazione. Mi alzo alle cinque per recitare un po’ di Breviario e celebrare la Messa alle sei. Poi è tutta una corsa, la colazione e l’andare al cantiere, perché il cartellino sia timbrato non assolutamente dopo il minuto delle 7,25.
E domani è sabato, il lavoro finisce all’una. Poi l’immenso riposo del pomeriggio con l’infinita gioia che il giorno dopo è domenica. Ho tanto imparato a godere profondamente, fino in fondo all’anima, la gioia della Domenica. E’ come se passassi un giorno di riposo, di pace buona e serena in casa di Dio, nella casa del Padre.


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