Internazionalismo


 

Omelia pronunciata dal Padre Provinciale Francescano del Centro America, Damian Muratori,
nel corso del funerale di Frate Tomàs Zavaleta, assassinato dai mercenari contras

(Managua, Nicaragua, 4 luglio 1987)

Nell’anno 1220, Francesco d’Assisi inviò cinque dei suoi figli in terra di Marocco. Ed essendo arrivati i nostri fratelli in quelle terre, predicarono la pace in nome di Cristo e soffrirono il martirio.
Quando Francesco seppe che i suoi figli erano morti nel nome di Cristo, esclamò: ora ho cinque veri fratelli minori!
Oggi, noi francescani del Nicaragua e di tutto il Centro America possiamo dire, con profondo dolore, che abbiamo un altro vero fratello minore, perché è il quarto dei nostri fratelli che viene assassinato vilmente, a partire dal 1980.
Ieri ha dato la vita per questa patria che aveva eletto sua, un giovane, questa volta un giovane religioso di appena 40 anni!
Per stare vicino al popolo ed annunciare la pace, è caduto un uomo semplice, umile, generoso, figlio di El Salvador, altra terra tormentata dalla guerra.
Molto giovane entrò nell’ordine francescano, e quando i suoi superiori ed i suoi compagni che lo vedevano così intelligente, lo spronarono a studiare per diventare sacerdote, egli sempre rifiutò. “Voglio – diceva – essere soltanto un frate minore, un fratello; mi sento chiamato solo a servire, e solo attraverso il servizio la mia vita può avere un significato”. E intraprese questo cammino nell’interno dell’Ordine, il cammino dei fratelli più piccoli, umili, di quelli che tessono le loro vite nel silenzio della casa, come una mamma qualsiasi. Proprio ieri aveva passato alcune ore a pulire la casa. Per lui tutto era meraviglioso, tutto era importante.
Così ha vissuto la sua vita il nostro fratello: vent’anni nell’ordine francescano, vent’anni dedicati al prossimo.
Nel corso di questo periodo i superiori gli affidarono molti incarichi importanti; lo destinarono sempre alle case di formazione, dove i giovani cominciano a conoscere l’Ordine, cominciano ad amarlo e ad impegnarsi con esso.
Questo fratello laico è stato per molte generazioni di novizi l’esempio del vero francescano, del francescano che si converte in servo, e il più umile di tutti.
Quando i superiori scoprirono in quest’uomo semplice le sue grandi qualità, lo destinarono al Governo Federale di Roma e lo stesso Ministro Generale lo nominò suo assistente, un po’ segretario e un po’ autista. Oggi, per caso, esaminando le poche cose che c’erano nella sua stanza, ho trovato una lettera del Ministro Generale, che aveva servito in silenzio e con amore per sei anni. Il Ministro Generale gli ricordava che i sei anni passati insieme erano stati meravigliosi anni di amicizia, di sofferenza e di risultati. E si firmava semplicemente: “Juanito que te quiere mucho”.
Dopo aver servito il Ministro Generale, frate Tomàs tornò in Guatemala e i superiori lo destinarono ancora ad una casa di formazione, però, non più come servitore, ma come maestro degli aspiranti sacerdoti, anche se era solo un fratello laico.
Frate Tomàs non fece mai una predica, mai salì sul pulpito per dire un sermone; il suo sermone consisteva nell’alzarsi presto e nell’andare a letto tardi, servendo i fratelli e chiunque avesse bisogno di lui. Alla fine dell’anno scorso il Ministro Generale gli inviò una lettera con la quale gli comunicava che doveva recarsi negli USA, a lavorare in California. Frate Tomàs ne fu afflitto e così rispose: “Padre, io sono salvadoregno, sono latino! il mio popolo è in guerra e non mi sembra che il mio posto sia negli USA. Voglio restare qui. Mandami dove c’è più bisogno di me, dove i fratelli sono in angustie ed io posso aiutare”.
Il padre Ignacio, che ora è ricoverato in ospedale come la segretaria della parrocchia, che è gravissima, gli raccontò che a Matiguàs avevamo una meravigliosa cooperativa di mille famiglie, una cooperativa che si stava preparando a produrre, e che lui in quel posto avrebbe potuto lavorare benissimo.
Allora frate Tomàs mi venne a visitare e mi comunicò che voleva restare, restituendomi addirittura il biglietto che gli avevano regalato. “Vado a Matiguàs, vado in Nicaragua, non vado più negli USA”, mi disse.
Si preparò, ed il 20aprile era già a Matiguàs. Lo stesso giorno del suo arrivo cominciò a lavorare.
In soli tre mesi quest’uomo semplice, quest’uomo di pochi studi, quest’uomo di poche parole si accattivò la simpatia dei bambini, dei contadini, della gente, con la sua disponibilità. Chiunque lo chiamasse, era sempre disponibile e sempre si è mantenuto disponibile in questi tre mesi, rischiando spesso la vita.
Ieri, come in qualsiasi altro giorno, due donne della parrocchia presero la via della montagna per andare a ritirare alcuni documenti di cui avevano bisogno. Frate Tomàs e il padre Ignacio lo sapevano, così verso le quattro del pomeriggio andarono loro incontro, per non lasciarle tornare a piedi, da sole, per quelle strade impervie e pericolose. Andarono loro incontro e le trovarono stanche sulla via del ritorno.
Dopo soli cinque minuti la camionetta saltava su una mina. Erano passati poco prima e la mina non c’era, però ora c’era!
La mina esplose e la camionetta fu lanciata a 20 metri di distanza e per frate Tomàs fu la fine del cammino, qui su una montagna del Nicaragua. Una montagna che non conosceva, per raccogliere due donne nicaraguensi che non erano niente per lui, che però, come frate minore egli si sentiva in dovere di soccorrere nel nome del Signore.
Fratelli, la vita di frate Tomàs, il suo sangue, si somma alla vita ed al sangue versato da tante persone. Io sento che il suo sangue santifica la terra di Nicaragua. Aver perso un fratello è motivo di dolore, però in questo caso anche di allegria, perché egli è stato prescelto affinché si compia quella meravigliosa parola di Gesù: “Non c’è gioia più grande che dare la vita per gli altri”.
In questo momento migliaia di fratelli nicaraguensi piangono e soffrono per gli altri! Noi dobbiamo meditare su questa vita e prenderla ad esempio, perché frate Tomàs scelse di venire qui per servire i fratelli e per predicare il Vangelo, non con le parole, ma a prezzo della propria vita. Egli voleva donare la propria vita invece di viverla egoisticamente. Frate Tomàs sapeva ciò che faceva. Lungo la strada molte persone lo avvisarono: “padre, non vada, le può succedere qualcosa”.
Alle otto di sera ci informarono dell’accaduto. E andammo anche noi verso la montagna, pieni di ansia. Lungo il cammino incontrammo contadini e soldati che ci salutavano e confortavano. Giunto sul posto trovai molta gente che stava pregando per il Riposo di frate Tomàs. Ci stavano aspettando, dato che il fatto era avvenuto alle cinque e noi giungemmo solo alle nove.
Dopo aver sistemato la salma sulla camionetta, andammo a Matiguàs. Tutto il popolo, le autorità civili e militari, i bambini, si sono stretti intorno ai fratelli che avevano subito la violenza, dimostrando tutta lo loro solidarietà. Attraverso le lacrime che vedevo e i lamenti che ascoltavo, ho capito che se tutti noi ci uniamo, se tutti noi dividiamo ciò che la vita ci offre ogni giorno, c’è ancora la possibilità che si compia la parola del profeta che abbiamo appena ascoltato.
Innanzi a questa tragedia, innanzi a questa morte, devo confessare nel nome del Signore che ieri è stato un giorno tremendo per me. Perché tornando da Rio Bianco, verso le dieci del mattino, mi sono imbattuto in un conflitto a fuoco ed ho dovuto caricare in macchina alcuni compagni feriti. Nel viso di quei ragazzi ho letto l’orgoglio di morire liberi e durante il tragitto ho capito che ci accompagnava il Signore. Quando ci salutammo dissi: “Non ringraziatemi fratelli, ringraziate il Signore!”.
Ieri è stato un giorno di violenza, ma soprattutto un giorno di solidarietà, un giorno nel quale ho sentito, una volta di più, risvegliarsi la coscienza del popolo nicaraguense, questo popolo amabile e povero che vuole superarsi.
Per questo dico che fanno al caso nostro le parole del Profeta, quando ci dice: “torneremo alla nostra terra, pianteremo le nostre viti e potremo coltivarle e raccogliere in pace”.
In questa stessa chiesa, il 14 luglio del 1979 dissi – forse qualcuno di voi era presente in quell’occasione – commentando quelle frasi, che io sentivo, attraverso la parola del Signore, che la domenica successiva saremmo stati in pace. E così fu [il 19 luglio 1979 è il giorno del trionfo della Rivoluzione Sandinista, n.d.t.]. La domenica seguente potemmo festeggiare la vittoria, però molto presto tornarono la violenza e la guerra.
Ora sotto il peso della croce da voi portata, sento una volta di più che se la fede, se la verità e il sacrificio (questo sacrificio che si somma a quello di migliaia e migliaia di persone) sono nei nostri cuori, anche il Signore è nei nostri cuori. E si compie la parola del salmo: la giustizia e la pace si toccano.
E si compirà anche la parola del Vangelo, quando dice che la morte che oggi ci fa soffrire sarà vinta! Una volta ancora il Signore è in mezzo a noi, partecipando al nostro dolore e giustificando la morte di frate Tomàs e quella a venire di tutti noi.
Io confesso che ieri, abbracciando il corpo di frate Tomàs, mi sono quasi ribellato: “Perché, Signore? Che colpa aveva questo giovane religioso salvadoregno che aveva lasciato la sua patria ed era appena giunto in questo paese? Perché è vittima della violenza? Perché?”. Però ho subito sentito nel mio cuore le parole di Gesù a proposito di Lazzaro: se voi credete in me, Lazzaro è vivo.
Io credo che frate Tomàs è vivo, vivo da ora per sempre nella memoria del Nicaragua e nel ricordo di tutti coloro che lo conobbero. Frate Tomàs merita la cittadinanza onoraria di nicaraguense!
Questa mattina decine di contadini che avevano appena cominciato a lavorare con lui nella cooperativa, sono venuti alla casa parrocchiale… ho visto piangere quegli uomini avvezzi al lavoro duro e alle sofferenze, quegli uomini bruciati dal sole, perché frate Tomàs era entrato davvero nei loro cuori! E c’è stata una coincidenza, fratelli: ieri era la festa di san Tommaso.
Il Signore ha chiesto questo sacrificio. Io, come Superiore dei francescani del Nicaragua, del Centro America e di Panama, mi sento orgoglioso di farvi dono di questa vita, mi sento commosso per questo privilegio che il Signore ha concesso una volta di più a noi francescani che predichiamo la Sua parola non come impiegati, ma attraverso il sacrificio della nostra vita.
Invidia frate Tomàs, perché ho vissuto sette anni sulle montagne di Matiguàs ed ho corso molti rischi, ma non ho mai potuto donarmi così totalmente!
Nel nome del Signore, vi faccio dono della sua vita; la dò a questa patria, e voglia Iddio che sua madre, i suoi fratelli e l’intero Salvador possano fare altrettanto.
Voglio concludere ringraziando tutte quelle persone che dalle cinque pomeridiane di ieri hanno vissuto con noi questa tragedia: i soldati, coloro che hanno collocato il corpo di frate Tomàs in una casa e lo hanno vegliato fino al nostro arrivo, la gente che abbiamo incontrato per la strada… Non conosco i loro nomi, non conosco i loro volti… Ringrazio le autorità di Matiguàs che durante la notte ci hanno messo a disposizione i mezzi per comunicare con tutto il Centro America. Ringrazio i medici, i compagni; non conosco i loro nomi, ma posso dire che conosco la loro generosità e il loro amore. Ringrazio il popolo di Matiguàs e tutto il popolo del Nicaragua. Ringrazio l’eccellentissimo signor presidente Daniel Ortega che oggi è venuto all’ospedale di Matagalpa per partecipare al nostro dolore, e ringrazio tutti coloro che lo accompagnavano. Ringrazio, per il gesto di essere ora con noi, tutti i sacerdoti presenti ed il Comandante Tomàs Borge. È un momento in cui ci sentiamo solidali, non intorno ad un concetto politico, ma intorno ad un uomo che ha dato la propria vita e che ci sprona ad essere uniti affinché ci sia un Nicaragua veramente libero e in pace.
Un Nicaragua dove – come dice la parola del Signore – si possano costruire le case e si possa mietere in abbondanza, non solo per questo popolo, ma anche per tutti gli altri popoli che ne hanno bisogno.
Che Dio benedica frate Tomàs e lo accolga nel suo Regno!

(traduzione di Silvio Santagati dell’Associazione Italia-Nicaragua)


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