Verso il Convegno Nazionale ’92
DOCUMENTI
Proponiamo un rilancio della riflessione, in risposta all’invito dei Responsabili nazionali e in vista della preparazione al Convegno nazionale che stiamo progettando attorno al tema: «Dai diamanti non nasce niente… Nella condizione operaia vangelo o evangelizzazione?». Cogliamo qui alcune linee di fondo delle riflessioni nate nelle nostre riunioni di PO Veneti e raccolte negli interventi scritti (pochi) pervenutici.
Vogliamo rilanciare lo scavo e la ruminazione sulle tre direttive:
1. Dio; 2. Chiesa; 3. Io,
visti dalla specola del nostro vivere fra i lavoratori.
IL TEMA
Lo intendiamo nel senso che orienta la riflessione sul grande filone della “evangelizzazione: ricerca-comunicazione di Dio” a partire da ciò che il PO vede e nota dall’angolo della sua quotidiana condivisione di vita con quanti operano e vivono fondandosi sul lavoro delle loro mani e in condizione di dipendenza. È là dove si avverte la non funzionalità e difficile omologazione di esperienze come la nostra, rispetto a tutte le strutture e organizzazioni; e dove si tocca con mano l’insignificanza dello stessa fede, come bene sociale e politico per il consenso. Insieme accertiamo che la fede potrebbe essere un luogo di libertà, di autonomia, di speranza e di ripresa per il “dal letame nascono i fior”.
Ci pare che è importante però che colui che va alla ricerca di Dio e fa l’esperienza di cercare di comunicarlo, non sollevi troppa “polvere”, non riduca l’evento e il messaggio a catechismo, indottrinamento, colonizzazione, dipendenza rassegnata del «io ho tutta la verità e devo trasmettertela; tu devi ascoltare, ricevere, obbedire: so io cosa ti serve».
IL CONTESTO
Si sta ridefinendo la condizione operaia e si fanno più complicate le analisi e le situazioni vissute, non avendo paletti fissi di riferimento comune. Nello stesso sindacato si vive un momento di necessità di resistere sull’essenziale e di ricominciare a ristrutturare il tutto. La società e lo Stato sollevano e gridano all’esigenza di riforme e cambiamenti istituzionali e di rifondazione. Anche i PO parlano di resistenza e di fedeltà, di esserci nonostante tutto e di non evadere altrove, ma insieme avvertono che c’è una pesantezza, una mancanza di senso, a volte, che non fa vedere albe nuove oltre l’orizzonte. Va fatta riverifica sul Vangelo, sul fondare la speranza e sull’andare oltre: cogliendo i segni di ripresa anche nell’orto degli ulivi e nel “legno”, che accoglie insieme il “Bambino avvolto in fasce” e il Crocifisso.
Si è parlato di “profanità” del sacro, della vita e della storia: di ogni realtà costruita dalle mani dell’uomo, dei luoghi dove la gente è condannata a vivere e dove, fuori dal tempio e dalla città, nominare Dio sembra eresia e profanazione e Dio stesso diventa insignificante. Da là, dove si trovano normalmente i PO «nel paradosso tra vanità e trascendenza, nel tentativo di pronunciare il nome di Dio non invano e di non catturarlo, lasciandolo cioè nella possibilità e nella ‘grazia’, è possibile, accettandone la contraddizione, vincere la legge di morte presente nella profanità. Qui può risuonare la parola e liberarsi lo Spirito che suscita la profezia e fa che le “ossa aride” si rianimino».
1. DIO
Come nominare ancora il Dio che parla nel silenzio e nella presenza-assenza, di cui è impregnata la Bibbia, il Dio che non garantisce nessun testimone e non dà coperture politiche e sociali, né successi storici? Come vivere oggi questa profonda possibilità di dare del ‘Tu’ al Padre in un contesto in cui muoiono le utopie e viene meno l’impegno di popoli interi per la loro liberazione? Di fronte a una apparente vittoria mondiale del Capitalismo, sulla testa di 2/3 dell’umanità, dove stiamo andando? E che Dio predichiamo in questa civiltà del consumo sfrenato, dove anche la fede arrischia di essere un oggetto da vendere e consumare e lo stesso Dio è catturato per farne un idolo e per renderlo gestibile e utilizzabile, e non proposta dirompente?
Siamo di fronte al sacro, che diventa mediazione: Cristo che diventa idolo, la Parola viva che diventa liturgia, il sacramento e l’evento che diventa ritualità, i ministeri e i carismi che diventano ruoli e caste. Denunciare tutto questo ci pare un compito legato al nostro vivere di PO accanto a chi è spesso vittima di questa riduzione a catene e pesi, che mortificano la vita, della chiamata evangelica alla liberazione comune e del lieto annuncio ai poveri”.
2. CHIESA POPOLO DI DIO
Come vivere la realtà della ‘sequela’ di Cristo in comunità, come popolo, come realtà viva e collettiva, con i segni della continuità, ma senza tradizionalismi schiavizzanti, nella linea della interpretazione infinita dei testi, senza appiattirli e addomesticarli, facendo perdere loro la forza dell’evento, che si fa e si attualizza? È ancora possibile che nascano uomini liberi e adulti in una Chiesa vincolata da concordati, intese, tassazioni e collette da 8 per mille? Siamo ancora in grado di proclamare fattivamente la libertà del cristiano, come singolo e come comunità e le sue potenzialità di liberazione per altri, in simili condizioni e vivendo nella contraddizione? Non va dimenticato che ciò è parte integrante della nostra condizione pellegrinante, ma non deve venirci meno il fondare la speranza nello Spirito, che deve condurci alla “verità tutta intera”, al Padre, oltre lo stesso Cristo mediatore e oltre la Chiesa. «Evangelizzare, quindi, è più che indottrinamento, colonizzazione (i 500 anni dell’America, il cristianesimo in Africa, i catechismi da noi…) e dovrebbe farsi silenzio, messaggio per sovrabbondanza, rompendo il legame mortale e la mediazione polverosa tra evangelizzatore maestro ed ascoltatore dipendente». La professionalizzazione e il ruolo stipendiato della Chiesa docente nei riguardi del laicato e della Chiesa discente, sta forse creando un binomio e una spaccatura, che è ben lontana dall’afflato mistico e stimolante dell’«essere insieme popolo di Dio in cammino verso la casa del Padre» di provenienza Conciliare.
3. IO
Viviamo in tempo di espropriazione e di disintegrazione della persona e dei diritti del singolo: la stessa vita che facciamo, i ritmi di lavoro, la quotidianità piatta e ripetitiva, le esigenze di produzione e competitività, l’efficienza comunque e la tempestività ad ogni costo, scolorisce e svuota non solo la nostra vita e la nostra identità personale, ma anche la nostra fede e il nostro rapporto interpersonale con Dio. Questo ci pone un ulteriore interrogativo: nella nostra ostinazione di PO di restare con gli altri lavoratori, quale fede è possibile, quale identità nella insignificanza istituzionale, quale testimonianza, che non ti estranei a te stesso? È ancora pensabile una semplicità e serenità di vita, che eviti di farti vittima di un ruolo e rappresentante ufficiale di un Dio, che tace, che non sacralizza nulla, che è il Padre assente del grido di Cristo sulla croce? Quale testimonianza è oggi veramente credibile e non appanna e svilisce l’annuncio?
È certamente questione comunitaria e di popolo, ma come si salda alle esigenze dell’individuo e ai diritti della persona? «Tu ricevi la fede in e da una comunità, cioè da altri, ma a nessun altro puoi delegare la tua scelta». Il dire ‘Tu’ a Dio è singolo, anche se avviene, come la morte, in un contesto comunitario. Quale la presenza e il superamento di queste dicotomie, di queste separazioni e di questi paradossi senza che si diventi nevrastenici o ambigui? È ancora possibile essere evangelizzatori e testimoni, senza confondere l’annuncio con la propria cultura, la propria mentalità e visione di vita (“alter Christus”)?
La fede sembra richiedere annunciatori, che parlano dal profondo della loro coscienza di infedeltà, di non-fede, di non piena rispondenza, di presenza-assenza, di rifiuto di rifugiarsi nei facili trascendentalismi evasivi. Non va dimenticato mai il «seme che germoglia mentre il contadino dorme» (Mt. 13,29).
GRUPPO VENETO PRETIOPERAI