Vegliare in tempo di guerra
Vegliare i bambini significa stare lungamente accanto, custodire, accudire, rimanendo vigili, attive e passive insieme. Indaffarate a nutrirne i corpi e nello stesso tempo pronte a giocare per saziare in loro cuore e mente; attente ai pericoli inorecchite , come si dice con una bella espressione viareggina, per cogliere ogni possibile suono mentre riposano.
Ricordo che nella prima riunione di redazione sul tema del “vegliare” – alle due riunioni successive non mi è stato dato di partecipare – proponevo questa visione al femminile, alla quale faceva da specchio quella maschile sul vigilare dell’uomo: in piedi, pronto a partire o ad agire, lo sguardo attento che elabora strategie, che coglie gli avvenimenti e seleziona le risposte da dare. L’atteggiamento del re saggio, del guerriero o del profeta.
Poi è avvenuta la tragedia dell’11 settembre e la storia è sembrata acquistare un’accelerazione improvvisa dopo la quale i termini con i quali leggevamo la realtà sono risultati inadeguati.
A partire da noi, dal soggetto che guarda e riflette siamo ormai (e, per paradosso, fortunatamente) costretti a ridefinire la nostra identità. Chi siamo? In quale rapporto ci poniamo con la nostra civiltà, le nostre radici, la nostra stessa geografia? Quali responsabilità intendiamo assumerci rispetto al presente? Quali nel grande disegno della storia competono a noi e quali sono appannaggio di altri popoli?
E chi è il tu , il secondo termine del dialogo? Cos’è veramente il relativismo culturale che ha costituito la base intellettuale della nostra storia post-colonialista? Da dove partire per ridefinire l’altro, pressati pesantemente da avvenimenti che non avremmo mai immaginato né desiderato?
Quali valori consideriamo irrinunciabili, tanto che solo partendo da lì può essere possibile collocarsi nuovamente in un universo leggibile, pur consapevoli – ormai – che potremmo essere violentemente spazzati via da qualsiasi certezza culturale o ambito spaziale d’un colpo solo?
Questo stare sospesi nel vuoto acuisce i sensi e ci spinge a guardare lontano, in ambedue le direzioni: verso il passato per trarne come sempre insegnamenti e verso il futuro per intravedere la via da percorrere.
Nella nostra cultura la questione morale della guerra si è posta con grande evidenza all’attenzione di molti, soprattutto dopo le due guerre mondiali. La nostra è stata una storia da sempre pausata da guerre di conquista che definivano di volta in volta il rapporto fra Stati – modalità non dissimili sono state quelle usate in altre civiltà.
Per ora la guerra pare essere il solo mezzo attraverso il quale le nazioni riescono ad imporre le proprie ideologie o ad espandersi territorialmente. Come se diventasse periodicamente fisiologico passare da uno stato che si avverte di finitezza (territoriale, ideologica, economica) ad uno di espansione attraverso un delirio di onnipotenza al quale altri popoli sono costretti ad opporsi.
Di fronte a questa realtà che raccontava e ancora racconta i limiti intrinseci dell’agire umano, l’unica possibilità intravista subito dopo le due guerre mondiali fu la ricerca di un’etica capace di coinvolgere strati sempre più ampi di intellettuali e di gente comune e di dar vita a regole giuridiche vincolanti per gli organismi internazionali o per le costituzioni degli Stati.
In un suo bell’articolo Roberta De Monticelli ci ricorda l’attualità del pensiero di due filosofe contemporanee, Elisabeth Anscombe e Jeanne Hersch, sul tema della pace. Della prima riprende uno dei criteri ai quali fece riferimento nel 1957 a proposito del dibattito sul giusto uso di una guerra in risposta a un’ingiustizia subita. Si tratta dei mezzi immorali , una regola alla quale il governo inglese e gli Alleati dapprima aderirono nel ’23 per dissociarsene clamorosamente nel corso dell’ultimo conflitto.
Venivano definiti mezzi immorali i bombardamenti aerei con distruzioni di proprietà private e di civili: fu proprio il rigetto esplicito di tale principio giuridico, la sottrazione a un vincolo collettivo accettato in nome di una comune identità culturale a permettere il gravissimo bombardamento di Hiroshima e Nagasaki.
“È questo il punto fondamentale: qui non si tratta affatto di regole di gioco tali che se l’avversario le infrange non ha più senso continuare ad applicarle, ma di regole etiche , cioè per definizione obbliganti, qualunque cosa faccia l’avversario. Ecco la distinzione estremamente importante che ci fa vedere perché è assurdo il sillogismo la guerra è male ma necessaria per sradicare il male, dunque…”.
“È assurdo perché non ha metrica , là dove la misura è il solo contenuto etico che propone: se si tratta di accettare il male minore per evitare il male maggiore, occorre che sia rigorosamente fissato un limite che preservi questa differenza. Altrimenti è perfettamente possibile che per sconfiggere un male se ne faccia uno maggiore.
“Questo è il nerbo etico delle argomentazioni sulla guerra giusta e questo è anche il loro interesse attuale. Quello di un’altra via fra due impasses che oggi sono l’ etica dell’intenzione e l’ etica della responsabilità . Impasses perché ambedue etiche dell’“o tutto o niente”: o tutto il potere ai principi o tutto il potere alla prudenza circostanziale. In una situazione come quella che viviamo oggi questo aut aut si traduce o in una criminalizzazione non solo di questa ma di qualunque guerra; o in un’adesione totale, qualunque sia il prezzo etico , alla politica della parte che si ritiene migliore.
“Ma c’è una terza via che possiamo chiamare l’etica analitica. Questa è l’etica che distingue e discrimina, si assume delle responsabilità di negoziare limiti e misure entro le quali però le regole etiche debbono valere assolutamente ”.
Negli ultimi mesi il problema etico delle regole da trovare per dirimere il problema della risposta bellica ad azioni di attacco è diventato sempre più pressante. Lo è almeno per noi occidentali che possiamo rifarci a una tradizione storica comune, parlare lo stesso linguaggio. Certo, molto più complesso è il problema che si pone nelle relazioni con gli Stati che si rifanno a tradizioni filosofiche e giuridiche diverse. Ma per noi si tratta di rispondere coraggiosamente agli interrogativi che ponevo all’inizio sul ritrovare una nostra identità culturale e sulle responsabilità storiche che da essa derivano. Solo assumendo le nostre radici – nel suo contributo Luigi Forigo sottolinea quanto dolorosamente se ne è sentito espropriato – è possibile attualizzare il senso del nostro stare al mondo.
La grave situazione internazionale ha riportato con forza alla ribalta l’impietosità dell’agire umano, la violenza, l’arroganza, l’attacco ‘al cuore del nemico’.
Perché è chiaro che siamo stati attaccati e che una risposta andava data: tutto si gioca nella misura della risposta, nel non accettare di cancellare il nostro codice etico pur di distruggere l’avversario, nel non essere disposti ad agire a mani libere come se in un altro territorio e per un’altra popolazione non trovassero diritto di asilo le più elementari regole di salvaguardia degli innocenti.
La civiltà della Ragione ha lentamente perso il contatto con la realtà difettosa e complessa dell’essere umano, la ricerca del troppo bene ci ha fatto perdere i contatti con il limite, quella parte oscura, rozza, in gran parte sconosciuta e refrattaria alla civilizzazione che pur esiste nell’uomo. Essa, solo con la sua presenza è in grado di obbligarci a trovare una serie di regole che valgano per tutti: buoni e cattivi. In grado sì di delimitare i comportamenti negativi di chi trasgredisce, ma anche quelli dei “buoni” che puniscono i comportamenti negativi.
Qualsiasi pedagogista ci dirà che l’insistere sul migliorare e tenere sotto controllo i comportamenti ostili porta alla lunga all’effetto opposto. La stessa natura insegna che là dove è stata da secoli maggiormente addomesticata e imbrigliata dall’azione umana prende le maggiori rivalse con i grandi disastri naturali.
“Il meglio è nemico del bene” dice un detto popolare.
Su questi temi riflette Baudrillard: secondo il filosofo francese il cuore del problema è “…nel totale controsenso con cui la filosofia dei Lumi affronta il rapporto fra il Bene e il Male. Noi crediamo ingenuamente che il progresso del Bene, la sua crescita in ogni campo (le scienze, la tecnica, la democrazia, i diritti dell’uomo) corrisponda a una sconfitta del Male. Nessuno sembra avere capito che il Bene e il Male crescono a pari passo e con lo stesso ritmo. Il trionfo dell’uno non implica la scomparsa dell’altro, anzi. […] Il Bene non riduce il Male, né succede il contrario: l’uno e l’altro sono irriducibili e il rapporto che li unisce è inestricabile. Appropriandosi del monopolio mondiale della potenza, il Bene provoca un ritorno di fiamma dalla violenza proporzionale.
“Nell’universo tradizionale il Bene e il Male si mantenevano in bilico in un rapporto dialettico che assicurava alla meno peggio la tensione e il riequilibrio dell’universo morale. […]
“Equilibrio che si è rotto dal momento in cui avvenne l’estrapolazione totale del Bene, l’egemonia del positivo su qualsiasi forma di negatività, ivi compresa l’esclusione della considerazione della morte. E quando l’equilibrio si è rotto è come se il male riguadagnasse un’autonomia invisibile e cominciasse a crescere a un ritmo esponenziale.
Non esiste soluzione alcuna a questa situazione estrema, soprattutto non lo è la guerra”.
Nella sua analisi lucida ed appassionata Baudrillard non prende in considerazione la possibilità di trovare delle regole etiche , il cui esistere scaturisce proprio dall’avere accettato la presenza del Male. Forse questa è l’unica possibilità che attinge al pensiero alto, filosofico (il Bene) per coniugarlo con una consapevolezza della realtà che mi vien da chiamare materna, anche se la legge è sempre stata considerata il dominio dei padri.
Infatti, se l’uso della ragione caratterizza l’Occidente e se vogliamo salvare questo tratto fondamentale della nostra identità culturale, allora dobbiamo accettare di farlo coesistere con l’altra sua faccia: con la ricerca della relazione. Con l’agire per l’altrui bene che parte dall’accettazione dell’altro, quel volto la cui densità della materia può rendere il nostro sapere meno cristallino, sporcare i nostri lineamenti, attenuarne la troppa luce, rendendolo un dono meno divino e più umano.
Se non seguiamo questa, la ragione – pietra angolare che ha permesso la costruzione di tutto l’edificio del moderno occidente – rischia ora di trasformarlo in una torre d’avorio dove viene custodita una fredda verità.
La nostra capacità di astrarre, un tempo preziosa alleata che ha consentito di compiere dei grandi passi avanti nel pensiero, nella scienza, nella tecnica – col passar del tempo ha subdolamente oscurato la capacità di vedere davvero, di ascoltare inorecchiti , di accogliere la diversità dell’altro che non è riducibile a una verità teorica.
Chissà, forse è venuto il momento di abbandonare del tutto il regno dell’astratto perché la purezza assoluta della ragione sbarra la strada “a tutti i cammini che si avviano verso il mistero, l’ignoto”.
Ma prima di porvi mano occorre purificare il cuore e la mente ed entrare nella dimensione del silenzio.
Il silenzio della veglia: il guardare lungamente, le mani conserte, aspettando di ricevere una risposta. Guardare contemplativo che accetta di non sapere perché si è capito che il sapere da solo è stoltezza: non ci ha resi migliori, non ci ha dato i mezzi per comprendere, guardare dentro, intelligere .
Dobbiamo tornare a vegliare, dunque, assumendo in piena consapevolezza quell’atteggiamento mentale abbandonato che precede l’atto della veglia. Vestendoci di tutto il peso della passività per essere capaci di ridiventare creature che non sanno, che aspirano a capire passando attraverso il tempo del tacere: “tacere per cominciare a parlare, ma senza fretta: tacere lungamente”.
Perché se vi è un tempo del silenzio è proprio quello della veglia amorosa. È come fare un passo indietro dal conosciuto per accettare unicamente di stare .
Nella pausa che sarà forse interminabile avremo tutto il tempo per farci modellare dal volto dell’altro: Dio e le donne e gli uomini che la vita pone nel nostro cammino.