Testimonianze di pretioperai su Carlo Carlevaris (5)


 

Per noi pretioperai Carlo è stato uno dei pilastri, assieme a Sirio Politi, Queste persone potremmo chiamarli i padri fondatori, anche se con vedute diverse, e questo è logico in quanto la bellezza di un prato fiorito sta nella diversità dei fiori e dei colori. Dai loro semi sono stati generati altri semi. Personaggi nati negli anni venti.

Ho avuto la fortuna di incontrarlo diverse volte al di fuori degli incontri nazionali. Egli è uno dei fondatori degli incontri europei. Ed è lì che ho avuto l’occasione per conoscerlo meglio. Viaggiare insieme per l’Europa, stare insieme nello stesso scompartimento a dormire, aspettare che ci venissero a prendere gli altri preti operai per portarci al luogo dell’incontro è stato per me motivo di conoscerlo a fondo. In quegli anni non si parlava che di lotte, di lavoro, mentre viaggiando insieme si parlava della propria vita, delle proprie esperienze, del quotidiano, del nostro modo di essere chiesa. Londra, Berlino, Bruxelles, Parigi, Barcellona, Madrid, Roma, ci hanno dato l’opportunità di vedere la realtà da prospettive diverse e con azioni diversificate. Parlando dell’ incontro europeo a Lione nel 1987 egli dirà:

“I preti operai hanno vissuto in questi quarant’anni le situazioni diversificate tipiche di vari paesi e le modificazioni che in ciascun contesto si sono prodotte sotto le spinte socio-politiche ed economiche”.

Ma aggiunge anche :

“Ma mentre queste hanno avuto una forte accelerazione e una più profonda incidenza nel tessuto umano dei lavoratori, le diversificazioni legate ai confini territoriali si sono sempre più attenuate”.

Una delle caratteristiche che io ho notato di Carlo era quella dell’ascolto e dialogo, Durante gli incontri ascoltava molto e parlava dopo gli altri, forse per avere tutti gli elementi per potere dire qualcosa, intervenendo senza tanti preamboli.

La sua preoccupazione era il dialogo con la Chiesa, perché noi avevamo scelto la strada della condizione degli operai e poveri, ma eravamo anche parte della comunità cristiana. Come lavoratori siamo stati soprattutto attenti alle lotte operaie, ai problemi del lavoro , mentre il discorso del dialogo con la chiesa l’abbiamo messo in secondo ordine, per lo meno nei primi decenni del nostro movimento anche perché la maggioranza di noi ha fatto la scelta del lavoro in contrasto con i vescovi delle diocesi di appartenenza, spesso anche disobbedendo. Per questo si è preferito concentrarci sulle nostre scelte. Essendo lui stato mandato come cappellano di fabbrica e nel 1968 con la scelta di lavorare poteva meglio coniugare questo modo di porsi. Non un atteggiamento del “aut … aut”, o questo o quello, ma quello del “et … et”, e questo e quello.

Lui chiamava l’atteggiamento del “et … et” come “occasioni perdute”. Entrato in fabbrica per un servizio pastorale, quasi per “convertire” ne è stato convertito dopo aver visto la situazione di chi lavorava.

“C’è stato un sofferto e importante dialogo con la Chiesa-popolo, quel frammento di popolo, quello operaio e sindacale. Nell’azione sindacale siamo stati attenti e capaci: nei consigli di fabbrica. abbiamo saputo dialogare con l’istituzione – padrone, senza svenderci, senza rinunciare ai nostri obiettivi, alle nostre idee. Non siamo stati capaci, interessati forse, ad un dialogo difficile, ma a mio parere possibile con la istituzione–Chiesa. Non siamo stati un interlocutore valido con essa. Continuo a pensare utile il dialogo, anche se non ricevo risposte: preferisco bussare anche se non aprono, piuttosto che rinunciare. Spero che i PO, quelli che restano in nome di Sirio, che ha sempre gridato e bussato, non si stanchino di tentare di cambiare questo volto di Chiesa, mentre fatichiamo a migliorare il volto di Cristo nei poveri” (intervento al convegno di Viareggio 1998).

Carlevaris, in secondo piano sulla destra, durante un convegno dei PO a Viareggio

Carlevaris, in secondo piano sulla destra, durante un convegno dei PO a Viareggio

A proposito di occasioni perdute egli le utilizzava per affermare questo modo di pensare, parlando senza mezzi termini, dicendo pane al pane e vino al vino come nell’intervento che farà al convegno organizzato dalla Pastorale per il lavoro nel maggio 1991:

“Intervengo per esprimere un disagio e un ringraziamento. Dall’insieme degli interventi, ma anche da una certa enfasi dell’Enciclica, non si scorgono cenni di responsabilità delle Chiese nella formazione, sviluppo e radicarsi del sistema capitalistico di questi due secoli. Pensiamo che non ci siano queste responsabilità?

– Ma non è vero che l’etica protestante e la stessa morale cattolica hanno dato un solido fondamento teorico e morale a questo sistema?

– Ma non è vero che i gestori politici di queste società erano cristiani sia in Europa che in America del Nord e del Sud?

– Ma non è vero che il Centro e il Sud America sono state governate da un sistema di sfruttamento che è iniziato con la Conquista ( che noi chiamiamo evangelizzazione di cui si celebra il 500’ anniversario) e che continua ancora in nome di una economia di mercato internazionale e che è stata ed è in mano a governi cristiani del Nord e dell’Ovest del mondo?

– Ma non è vero che la Chiesa ha fatto un’enorme fatica a capire il movimento operaio, la classe operaia, i suoi spazi, la fatica del suo cammino a cui ha offerto più scomuniche che aiuti?

Se questi che a mio parere sono errori e ritardi, perché non dirli, non ammetterli con umiltà in questa sede? Anni fa il card. Pellegrino alla televisione italiana, su sollecitazione di alcuni di noi, chiese politicamente perdono alla classe operaia per questi ritardi e tradimenti. Non è il caso che questo riconoscimento dei nostri torti, se non la richiesta di perdono, venga affermato qui?”

Per un certo periodo è stato lontano dai nostri incontri nazionali, era il periodo delle forti contrapposizioni tra un gruppo regionale e un altro. Ne abbiamo parlato a lungo durante gli incontri europei, ma col tempo questa situazione cambiò. Forse eravamo diventati più saggi, meno conflittuali. E questo è stato un passaggio importante, perché la realtà si può vedere da punti di vista diversi e le idee possono diventare complementari. Questo gli ha permesso di ritornare ai nostri incontri nazionali. Su questo avevo insistito molto con lui. Negli ultimi anni era diventato più silenzioso, parlava poco, ma ascoltava molto. Un’impressione che ho avuto durante l’incontro fatto a casa sua con i torinesi per la preparazione a quello europeo nel 2013 che si sarebbe tenuto qualche mese dopo, non ha detto una parola. La sua salute era sempre più fragile. Mi ricordo sul treno per Parigi in compagnia di Mario Pasquale e di Renzo Fanfani si era scordato di pagare il biglietto, ma non solo: era convinto di averlo fatto. Tutti provammo nei suoi confronti un senso di tenerezza, perché avevamo capito che cominciava per lui il tramonto. Vederlo con noi, nonostante i primi segnali, ci dava coraggio, voleva lottare fino alla fine.

Un altro ricordo umoristico: quando si sedevano a tavola, lui e Dino Fabiani, discutevano su chi era più vecchio dei due: erano nati nel 1926 a pochi giorni di distanza e questa discussione si è ripetuta per diverse volte negli ultimi anni.

Un ultimo riferimento tolto da un documento dei PO piemontesi del 2000 esprime il percorso di Carlo :

“Andati per evangelizzare”, siamo stati evangelizzati: fu un’impressione (e forse più che un’impressione) che in modi diversi tutti abbiamo avuto. Fino al punto, in alcuni casi, di rischiare di identificare lotta operaia ed evangelizzazione, con indebite confusioni e sacralizzazioni e con altrettanti indebiti riduzionismi nei confronti della fede. Era un prezzo che dovevamo pagare per purificare la nostra fede e ritrovare l’essenzialità: averlo pagato ci ha resi liberi nei confronti di ogni massimalismo, di ogni tentazione di nuovi integrismi. Ci ha aperto spazi di libertà nella chiesa … Ci siamo definiti “uomini di frontiera”: non certo per affermarla e rafforzarla: abbiamo davvero contribuito ad abbatterla? Voler essere “coscienza critica” ci fa ritrovare non di rado soli, nella chiesa come classe operaia, a “camminar cantando” sostenuti solo da una “fede povera”, senza garanzie istituzionali, senza puntelli esterni.

Mario Signorelli


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