Una storica, Anna Scattigno, “ripercorre” alcune pagine delle conversazioni di Beppe Pratesi e Lucia Frati con Antonio Schina, pubblicate con il titolo “Con tutto l’amore di cui siamo capaci” (sottotitolo: “Il nostro modo di essere preti”).

(Nel numero 131-132 della nostra rivista [qui] Roberto Fiorini ne ha scritto una accurata presentazione, che merita di essere ripresa in parallelo a questo altrettanto accurato scritto di Anna Scattigno; in questo nostro blog abbiamo riprodotto un intervento di Tomaso Montanari pubblicato recentemente da Il Fatto Quotidiano [qui])

Nell’estate 1971 su “La voce dei poveri”, il periodico di don Sirio Politi che si stampava credo a Viareggio, Giuseppe Pratesi e Mario Facchini pubblicavano una riflessione sul sacerdozio che contiene punti importanti e vorrei partire da qui per ripercorrere alcune pagine delle “conversazioni” di Beppe Pratesi e Lucia Frati con Antonio Schina pubblicate dal Centro Documentazione di Pistoia nel 2021, che con apporti diversi, «con passione e con pazienza» come scrive Alberto Bruno Simoni nell’introduzione, danno vita alla narrazione, che è in prima persona e dunque di particolare suggestione, di una vita di prete e di uomo raccontata nei giorni e nelle opere, singolare e ricca di valore.

Credo che nell’estate 1971 Beppe Pratesi fosse già a Viareggio e con lui Beppe Socci, accolti entrambi nella comunità di Sirio Politi dopo alcuni incontri avvenuti in quei mesi. Mario Facchini, divenuto poi «amico fraterno, compagno di vita e di lotte», mi pare di capire che vi fosse giunto da poco provenendo da un tormentato cammino di ricerca di cui raccontò molti anni dopo, nel convegno dei Preti Operai che si tenne a Viareggio nel 1998. L’articolo apparso nel 1971 su «La voce dei poveri» aveva per titolo Non esiste una “vita da prete”. Gli autori, Pratesi e Facchini, si definivano come «due preti che sono operai». Leggendolo, ho pensato a quanto in quegli anni scriveva Ernesto Balducci nel suo I servi inutili pubblicato da La Cittadella nel 1970. Noi preghiamo, scriveva Balducci, perché la Chiesa sciolga i molti vincoli che rendono coatto l’esercizio del ministero sacerdotale e ritrovi la forza della parola profetica, «quando il discorso del prete sarà discorso di fede e nient’altro»; e pensava a una libertà che «si gioca tutta fra l’uomo e Dio», e a una pluralità, per i preti, di condizioni di vita. La fede e il sacerdozio, scrivevano Beppe Pratesi e Mario Facchini su “La voce dei poveri”, «sono quanto di più sconvolgente si possa immaginare: un vino che nessuna botte può contenere, perché sempre nel bicchiere per essere bevuto».

In seminario Beppe Pratesi era entrato nel 1955 a sedici anni; aveva fatto le medie a Borgo San Lorenzo presso i salesiani dove i ragazzi, ricorda, venivano da tutto il Mugello; ci restava tutto il giorno per tornare a sera a Luco con la Sita degli operai. Il ginnasio l’aveva fatto invece in un istituto sempre dei salesiani a Castel San Niccolò in Casentino; tornava a casa il sabato. Nella scelta di entrare in seminario, c’è stato il “fascino” esercitato su di lui e sui suoi compagni di Luco dal parroco, don Dino Margheri ordinato prete nel 1913 senza aver fatto gli studi ecclesiastici: era stato fabbro poi era andato a scuola dal pievano di Vaglia che era cieco. Un percorso singolare, forse non così raro allora. Con lui Beppe aveva iniziato a fare il prete «ancora prima di esserlo». C’è nella memoria di Pratesi la stima “grandissima” nei confronti di quest’uomo «tutto intero» che aveva subito violenze dai fascisti locali, e c’è stima anche per i sacerdoti che originari di Luco si erano formati nel seminario di Firenze e avevano la cura di parrocchie e pievi o avevano coltivato le lettere, o come Giuseppe Tagliaferri la matematica e l’astronomia. «Tutti pensavamo – dice Beppe Pratesi – che da preti si potesse essere come loro: era una strada percorribile, non ci spaventava provare anche noi». Ma quando Beppe entrò al seminario maggiore a Firenze, era già percepibile la crisi che negli anni successivi avrebbe investito con forza le forme del sacerdozio ministeriale dissolvendone contenuti e modelli.

Mi soffermo sul seminario fiorentino e sulla memoria che Pratesi ne conserva: Gino Bonanni che vi giunse come rettore nel 1958, dopo Enrico Bartoletti, lo descriveva come un luogo arido dal punto di vista umano, dove si impartiva un’educazione ispirata alla cultura del sospetto, incapace di formare uomini nel senso pieno della parola e tanto meno sacerdoti. Nella formazione di Beppe Pratesi il seminario maggiore ebbe tuttavia un rilievo profondo, fu un luogo di germinazione di idee che nascevano e venivano maturando negli incontri di quegli anni. Ma fu anche, per lui, un luogo di apertura. Penso al ragazzo timido, cresciuto dai salesiani, un montanaro dice con affetto Lucia Frati, che in seminario, a contatto con giovani che venivano da tutta la Toscana, perse la sua chiusura. E poi l’incontro con le Sacre Scritture, insegnate secondo un indirizzo storico, aggiornato, e la «meraviglia» che Pratesi ricorda dei commenti di Bartoletti alle profezie di Isaia, durante la novena di Natale. Ma Bartoletti nel ricordo di Pratesi era anche attento a suscitare nei giovani interessi per i linguaggi dell’arte, del cinema, della musica e per le problematiche contemporanee. «È stato dice – un esempio di prete per me per tutta la vita». L’apertura che cercò invece di portare in seminario Bonanni, quella forse che più ha inciso nell’esperienza di Beppe Pratesi e dei suoi compagni di studi, era piuttosto sul piano della formazione ai rapporti umani «al di là delle regole – dice Beppe – che erano magari ancora quelle vecchie», e un’educazione, scrive, «che rispondesse di più alle esigenze del tempo». E dunque la partecipazione alle riunioni preparatorie ai Colloqui del Mediterraneo, le lezioni di don Rosadoni con quel suo linguaggio moderno, sciolto, «non alla maniera dei preti» ricorda Beppe; e ancora le conferenze di padre Vannucci alla SS. Annunziata, i primi contatti con la realtà delle parrocchie, e don Borghi che veniva a parlare della sua esperienza con gli operai. Vannucci era stato chiamato a insegnare Sacra Scrittura ma dopo un anno fu allontanato, gli incontri continuarono, ricorda Pratesi, in modo quasi clandestino. Nel 1958 era intanto uscito Esperienze pastorali di Lorenzo Milani, in seminario era forte l’attesa ma lui poté leggerlo solo più tardi, di nascosto perché tra i seminaristi non poteva circolare.

«Ci si riuniva in piccoli gruppi, dopocena, ricorda Beppe e si parlava. Diventare preti cominciava, ai nostri occhi scalpitanti, ad avere dei contorni nuovi e interessanti».

A Palazzuolo sul Senio, dove fu inviato cappellano con Carlo Calamandrei, il parroco rispondeva credo al modello dei vecchi preti di campagna e di montagna, era stato lassù tutta una vita, ricorda Beppe, era «tutt’uno col paese». Lui e Calamandrei condividevano due stanze sopra il pollaio della canonica, «si viveva insieme». Prende avvio da queste note un discorso che è un po’ mi pare un filo rosso nei ricordi di Beppe Pratesi, ed è intorno all’amicizia. L’amicizia con il parroco di Salecchio, che aveva le mani «come quercioli», un uomo dei monti vero, che gli operai, i boscaioli, i minatori consideravano come uno di loro; l’amicizia con Angela Lombardo, che appena laureata era venuta a insegnare alle medie di Palazzuolo ed erano così in tre, dice Beppe, lei lui e Calamandrei, «ingenui e felici di cambiare il mondo». Con Calamandrei Beppe Pratesi firmò nel 1964 la lettera di Bruno Borghi e Lorenzo Milani indirizzata al vescovo, in occasione della rimozione di Gino Bonanni da rettore del seminario. La lettera, riportata tra i documenti che figurano nel libro, infrangeva il silenzio come sottomissione passiva all’autorità del vescovo e proponeva un nuovo stile di rapporto. Il coraggio di sottoscriverla lo ebbero in pochi.

E ancora Pratesi ricorda l’amicizia, tanta, cresciuta nel tempo insieme a «tanta voglia di fare», con Renzo Fanfani parroco alla Tinaia negli anni in cui Beppe era cappellano a Montelupo. Renzo Fanfani coniugava il suo mestiere di fabbro con il ministero parrocchiale. Ma Pratesi e Beppe Socci cercavano un’altra via, del tutto originale mi pare. Socci era figlio di un fattore, cresciuto dallo zio mezzadro a San Casciano. Anche qui un’amicizia profonda, nata in seminario e alimentata da una visione di spiritualità condivisa, ispirata ai Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld. Non si pensavano in una canonica, a vivere da preti, parroco e cappellano, magari con una perpetua per i lavori domestici. Si pensavano in una casa d’affitto come tutti, ricorda Pratesi, con un lavoro vero e proprio come operai o artigiani: una presenza cristiana in mezzo agli altri non separata, «alla pari». Quando andarono a Castiglioni vicino alla Ginestra fiorentina neppure l’abito talare li distingueva dai contadini, se non il sabato e la domenica per le messe. Si pensavano come «compagni e fratelli». E credo che così scrivessero nei messaggi e nelle lettere inviate al cardinale Florit sul modo in cui volevano vivere il loro impegno sacerdotale, ma il cardinale non rispondeva. Avrebbero desiderato andare a Novoli, dove l’insediamento della FIAT nel 1930 aveva dato vita al nuovo quartiere operaio di Firenze, ma nel 1969 finirono invece a Castiglioni, mentre a Firenze era in corso la vicenda dell’Isolotto. Il lavoro da braccianti nelle vigne era vicino alla loro origine, ma corrispondeva anche alla loro spiritualità, era silenzio, apriva al contatto «famiglia per famiglia, da uomo a uomo», ed era preghiera, ricorda Pratesi: è bellissimo, in calce al libro, il profilo dell’altro Beppe, Beppino Socci, che aveva la porta sempre aperta, giorno e notte, e praticava “la preghiera del cuore”. Tessitura di relazioni: è anche ciò che sottolinea Lucia Frati, insieme all’aspetto «forte», quello dell’accoglienza. Era tanta la gente che saliva lassù «come se fosse casa tua», dice Lucia, da Empoli, da Firenze. Così le pagine di queste “conversazioni” si fanno fitte di nomi ricordati con cura uno per uno, in una sorta di restituzione grata del bene incontrato negli altri.

Quella di Beppe Pratesi e Beppe Socci era una «piccolissima comunità», ma Pratesi non insiste su questa parola così carica di significato e di storia nelle vicende di quegli anni ma che forse conserva anche nell’apertura un che di recinto. Vivevano «un rapporto di comunità», ma la loro era piuttosto, del tutto inedita credo, un’idea di «fraternità». Il modello, che sarebbe tutto da approfondire, era quello dei Piccoli Fratelli. «Beppe, in tante occasioni, quando mi scriveva, mi chiamava fratello» dice Pratesi. Due preti che stavano assieme: c’è questa parola, «insieme», così importante per loro e c’è nei ricordi la gente che saliva a Castiglioni per capire questa vita da cristiani e da preti senza gerarchia: ne percepivano la novità, era nell’attesa di molti. Nelle famiglie, dove lo desideravano, la sera dopo il lavoro si faceva l’eucarestia. «Alla comunione si diceva: Questo è il momento in cui Gesù divide il pane e il vino» e il pane era quello della madia, il vino era quello nel fiasco. Perché c’era bisogno di «cose vere, da uomini» dice Beppe Pratesi, non di cerimonie: «era quello che si era vissuto con il concilio». Tra i tanti che venivano, è molto bella l’immagine di don Bensi giunto una sera quasi a buio, era venuto a piedi da Baccaiano a Castiglioni e lo accompagnarono poi nel ritorno per un tratto di strada. Le parole con cui si congedò da loro, Oboedientia et pax credo sia giusta la lettura che ne Pratesi non erano di monito, non si riferivano all’ambito interno alla Chiesa e all’istituzione ecclesiale, piuttosto alla pace delle vigne e degli oliveti, alla legge del creato e alla vita. D’altra parte di obbedienza ben poco si parla in queste conversazioni, molto invece della vita. Giunto l’ordine nel 1970 di chiudere l’esperienza che non era da proseguire a Castiglioni altrove, Pratesi e Socci cercarono come continuare il cammino insieme. Beppe conosceva ora la sua vocazione, che era vivere nel mondo; come risposero al cardinale, il mondo «è un po’ più grande della diocesi di Firenze». D’altra parte il «doversi regolare con la sola coscienza» come è nel dettato della lettera di Lorenzo Milani e Bruno Borghi al cardinale Florit era ormai condizione imposta, stante il “muro” tra vescovo e preti.

A Viareggio dove trovarono accoglienza all’inizio degli anni Settanta, vissero nella famiglia «strana» di don Sirio Politi e don Rolando Menesini; anche lì, dice Beppe Pratesi, più che comunità era una vita in comune tra preti e laici, tra uomini e donne. «Una vita normale di uomini e donne, di lavoro onesto per vivere, come tutti, una casa ospitale e accogliente, che non aveva odore di sacrestia, ove vivere, pregare insieme, studiare, accogliere. Così volevo fare il prete […] perché così mi era apparso Gesù di Nazareth, il falegname […] vita vera, sudata e non già scritta e pensata dal vescovo e dal Codice di Diritto canonico».

A Viareggio in fabbrica Pratesi imparò la solidarietà e l’amicizia tra operai, ma anche forme di lotta dure, «pagando di persona se necessario». Con Mario Facchini scrisse su «La voce dei poveri» che la scelta della povertà, lungi dall’essere “un esperimento”, è una componente necessaria nella vita di chiunque vuol seguire Gesù. Solo questa scelta, scrivevano, può far sì che si possano «ridire in verità (senza magia o superstizione)» le parole con cui Gesù indicava nel pane e nel vino il proprio corpo e sangue. Sacerdozio è scelta di classe, senza rancore o odio, dicevano, senza chiusura per il progresso e il benessere; scelta di classe era nella loro lettura mettere la cultura, i mezzi di produzione, il potere, la religione al servizio di tutti. Ed essere sacerdoti nella classe dei poveri, nel “popolo dei poveri” dove «affonda le sue radici il Popolo di Dio», significava per loro «alimentare la fame e la sete di giustizia e di pace». Perché in fondo, come credeva davvero Beppino Socci, «è normale, è bello, è giusto soffrire con chi soffre».

Lucia conobbe Beppe e la comunità del Bicchio alla fine del 1971. Un’altra storia la sua, «più importante della mia» dice Beppe. Lucia aveva un forte impegno politico, “militava” come si diceva allora nella nuova sinistra; a Firenze aveva fatto l’educatrice al Torrigiani, diretto allora da Adriano Milani Comparetti, il fratello di Lorenzo Milani; poi, lasciato il lavoro era andata a vivere a Sant’Agata nel Mugello in quella che lei stessa definisce «una comune di contadine». Lettera a una professoressa aveva segnato nella sua formazione un momento importante. Le vite dei santi l’avevano affascinata nell’adolescenza ma la sua religiosità non aveva più come riferimento l’istituzione ecclesiastica né il sacro separato dalla vita quotidiana. Cominciarono a vivere insieme (si sono sposati solo nel 2013 sul Monte Amiata avendo i figli per testimoni) ma con serenità. La lettera, molto bella, che scrissero nel 1975 ai genitori di Beppe dopo due anni di condivisione di vita, racconta di una «comunione grande» che non era di ostacolo all’amore del prossimo, di una strada che era la stessa di prima, verso un servizio ai fratelli secondo lo spirito che animava Gesù e gli apostoli: «la differenza è che la percorriamo insieme, nell’amore reciproco». Era «la novità più forte di noi due» dice Pratesi: e questa novità era nella libertà e serenità – pensando a tante storie di vergogna, di nascondimento e di emarginazione con cui dopo lunga riflessione decisero di vivere «da sposi» ciò che prima vivevano da soli, nel sacerdozio e nell’aiuto ai fratelli. Beppe ne aveva parlato a Roma con Bartoletti. Aveva 32 anni e aveva il coraggio che gli veniva dalla coscienza di un dovere, quello di «decidere da me – scrisse allora – il modo di vivere e di interpretare il Vangelo e il mio sacerdozio come penso io, di rispondere con la mia vita all’invito di Gesù a seguirlo».

Difficilmente si trovano le parole per dire la novità, anche questo è ricerca, è cammino. Operaio prete fino al 1977, secondo la definizione che per sé aveva scelto Bruno Borghi, e sindacalista – le pagine delle conversazioni sono ricche di ricordi di lotte, di occupazioni e di scioperi , perché sono cose che «rimangono nella pelle» –, pian piano Pratesi smise di dire messa. «Non ho mai sbattuto la porta» dice, «avrei continuato a vita». Con Lucia capirono che fare famiglia era «proseguire il cammino» non sulla strada clericale – la “vita già scritta”, la “vita da prete” – ma su quella, dice Beppe, degli uomini e delle donne, «quella che aveva percorso anche Gesù». Un’immagine aiuta a dire l’inedito: «Con Lucia, la donna è entrata nell’orbita sacerdotale». E ancora: «Fare il prete in due», «condividere il sacerdozio con una sposa»: è stato, dice Pratesi, «il nostro modo». Era davvero, secondo queste parole, la rottura di un tabù, un modo che significò vivere il sacerdozio «con sensibilità femminile e maschile, sotto lo sguardo materno e paterno del Padre».

Il celibato, nell’ambito di una riflessione che negli anni Settanta era in fieri e difficile da affrontare – ricordo le incertezze di Ernesto Balducci ne I servi inutili già da allora non appariva a Beppe Pratesi come una forma di vita più santa, piuttosto una scelta. Aveva vissuto il sacerdozio nei due stati, celibe e coniugato, come un crescendo. Ciò che gli appariva e gli appare tuttora insopportabile era la concezione della donna sottesa all’imposizione del celibato, come di un pericolo, un attentato alla santità del sacerdozio. Nella «vita da prete» un rapporto di comunione con una donna appare tuttora inconcepibile. Lui ha continuato a fare il prete «assieme a lei», spogliandosi dell’habitus clericale che del resto non gli era mai davvero appartenuto, neppure quando era cappellano a Palazzuolo sul Senio o a San Salvi a Firenze. E prete è ancora e come tale si percepisce. Pensa al fondo che non sia questione di regole, ma del fatto che ci si creda o meno «che la donna arricchisce dove vive».

La storia che il libro racconta a un certo punto è quella vissuta in due, i ricordi di Lucia si fanno più fitti, e sono i giorni e le opere di una vita straordinaria dove «il nostro albero», come scrivevano nella metà degli anni Settanta ai genitori di Beppe, ha dato davvero nell’«amore reciproco» i frutti che entrambi speravano allora: i figli, le tante battaglie e il tanto bene dato ma anche ricevuto, nell’accoglienza e nel riconoscimento degli altri come «fratelli».

Anna Scattigno

Ad Antonio Schina la gratitudine per aver sollecitato con discrezione e sapienza questi racconti.

Firenze 12 gennaio 2023


Anna Scattigno, storica, già ricercatrice presso l’Università degli Studi di Firenze, ha insegnato Storia della chiesa moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell’Università di Pisa e Storia della chiesa nel corso di laurea specialistica in Beni culturali e archivistici e nel corso di laurea specialistica in Lingue e culture dell’Oriente antico e moderno presso l’Università di Firenze. È socia dell’AISSCA, Associazione italiana per lo studio dei santi , dei culti e dell’agiografia.
Si occupa di storia della santità in età moderna e contemporanea. Tra gli studi degli ultimi anni inerenti al tema del sacerdozio si ricorda Lorenzo Milani nelle riletture di Ernesto Balducci. Una costruzione di memoria nella Chiesa fiorentina, in “Archivio Italiano per la Storia della Pietà”, XXVIII, 2015; Il mondo cattolico fiorentino degli anni Cinquanta, in Aspettando il Sessantotto. Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968, a cura di F. Chiarotto, Torino 2017; Ernesto Balducci attraverso i Diari, in Chiesa italiana, politica e società, a cura di M. Paiano, Aprilia (LT) 2019; I servi inutili e l’annuncio della parola, in Terzo Millennio. Il pensiero anticipatore di Ernesto Balducci, “Testimonianze”, 543-544 (2022).
Per i suoi interessi rivolti invece alla storia delle donne si ricorda tra i tanti contributi, nel volume uscito nel 2022 per Carocci Storia delle donne nell’Italia contemporanea a cura di S. Salvatici, il saggio Le forme della fede. Cristianesimo, femminismi, militanza.


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