Ci scrivono
Maria Lopez Vigil è una giornalista di origine cubana, sorella del P. José Ignacio Vigil, teologo della liberazione, con cui ha scritto anche una breve cristologia e una Vita di Mons. Romero. Lavora alla rivista “Envio” dell’Università Centro Americana (UCA), pubblicata anche in italiano.
(Testo pervenuto in redazione con richiesta di pubblicazione dall’agenda “Latinoamericana 2000”, ed spagnola, pp. 24-25: è parte di tutta una complessa riflessione sulla “remissione dei debiti”).
Molti di questi progetti rivoluzionari che volevano portare giustizia abortirono. Altri “si persero nella collera”, come direbbe Neruda. Altri furono mediati e riassorbiti, come si direbbe oggi. Altri fallirono del tutto, dimostrando enorme fragilità. Qualcuno è vincente in mezzo a enormi difficoltà, altri riuscirono a metà. La barbara repressione dei regimi di “sicurezza nazionale” e l’intensa guerra degli anni ’70-’80 lasciarono montagne di morti e seminarono nella coscienza latinoamericana un’enorme stanchezza e paura dei cambiamenti.
Nessuno di questi progetti rivoluzionari è andato completamente perduto: ci fu fuoco e restano delle braci. Nascono pure nuovi vigorosi tentativi, che mescolano braci nuove e ancestrali, come in Chapas, realtà promettente e garanzia di novità.
In questa fine di secolo dobbiamo essere autocritici. Anche i nostri movimenti rivoluzionari, guerriglieri e popolari hanno debiti da saldare. Ne segnalo quattro, sicura che ne esistono altri ancora.
1. Siamo stati troppo trionfalisti, di vedute corte e ristrette, avanguardisti.
L’avanguardismo volontarista non si cura di convincere, ma di vincere. E quando dice di volersi disporre a convincere, convince solo coloro che già sono convinti. A lungo termine rimane statico, non produce crescita. Perde occasioni di dibattito, di dialogo, di ricerca di consensi e alleanze. Le avanguardie che fin dall’inizio stanno in prima fila finiscono con creare emarginazione, con le loro proposte “eroiche” cui di fatto neppure esse si mantengono fedeli. Siamo in debito verso coloro che abbiamo emarginato con il nostro duro e fiero volontarismo.
2. Siamo stati troppo paternalisti.
Abbiamo prestato più attenzione, concentrandovi tutti i nostri sforzi, alla ricerca di modelli di più giusta distribuzione, piuttosto che alla ricerca di modelli produttivi, efficienti e di qualità. Ci impegnammo a togliere a qualcuno per dare ad altri, non per chiedere a tutti un lavoro responsabile, coinvolgendoli in una concorrenza stimolante.
Tutte le rivoluzioni proclamarono che il popolo era il soggetto della nuova storia, ma in pratica il popolo fu oggetto di donazioni.
Il modello statalista di accumulazione in vista di una distribuzione egualitaria di quanto fu accumulato non creò ne può creare un’alternativa al capitalismo. Il modello socialista che assumemmo come modello si poneva l’obbiettivo di sopprimere il mercato, perché lo Stato lo sostituisse e si incaricasse di ridistribuire a tutti la ricchezza con eguaglianza. Non vi riuscì. L’egualitarismo non è l’ideale, lo è l’equità.
Siamo in debito verso milioni di poveri che aspirano a non esser più poveri, non ricevendo soltanto benefici, ma gestendo in prima persona la propria vita e la propria produzione, tracciando personalmente il sentiero verso la propria realizzazione personale. Le rivoluzioni del futuro dovranno affrontare la sfida dell’economia: come far soldi con onestà, come produrre ricchezze con efficienza, come controllare il mercato perché sia democratico e aperto a tutti.
3. Siamo stati eccessivamente schematici.
Nei nostri movimenti rivoluzionari tutto era spiegato con la lotta di classe, con il conflitto ricchi-poveri (o quasi tutto, che non è la stessa cosa, ma non cambia nulla!). Ma è uno schema eccessivamente semplicistico per chi vuole interpretare la realtà e cambiarla, anche in America Latina, dove l’abissale distanza fra ricchi e poveri costituisce un autentico record nel continente.
Il conflitto ricchi-poveri non spiega tutto. Neppure rivoltando più volte la frittata raggiungiamo il fondo del problema umano. Vi sono altri conflitti (sessisti, razziali, generazionali, etnici) che ci collocano di fronte a contraddizioni più profonde e a sfide più fondamentali.
Ci siamo proposti la costruzione del socialismo e abbiamo trascurato la formazione di uomini e donne con mentalità socialista: compito molto più complesso e importante, che ci costringe a conoscere gli esseri umani, così diversi, complessi, non riducibili alla prospettiva unidimensionale della lotta di classe. Una donna che lavora in un’azienda tessile di Quetzaltenango è una guatemalteca salariata, sottomessa a un brutale regime di sfruttamento capitalista. Ma è anzitutto una donna. In più: è indigena. In più, è giovane. In più, è un’impenitente “fan” di Michael Jackson e di Selena… La sua liberazione è molto più complessa di quanto immaginiamo.
Siamo in debito verso milioni di poveri che abbiamo considerato solo come poveri, dimenticandone sesso, razza, età, tratti specifici della loro cultura o della loro mescolanza di culture.
4. Siamo stati eccessivamente maschilisti.
La mancanza di equità tra uomini e donne, tra bambini e bambine, è la più radicata, la più grave e pregiudizievole, nelle civiltà umane. Non è la stessa cosa un uomo povero o una donna povera. Perché il maschio povero ha almeno il potere dell’essere maschio. La donna non ha potere alcuno. Peggio ancora se è india, negra, vecchia, cieca, invalida…
Le nostre rivoluzioni furono maschiliste per il modo di esercitare il potere, per il modo di pensare la società, per le vie scelte per sviluppare l’economia, per i cammini attraverso cui si entrò o si scelse di non entrare sul terreno della cultura. Prevalse il punto di vista maschile e mancò quello femminile. Le diverse forme di guerra che accompagnarono gli sforzi rivoluzionari misero sempre più in ombra il punto di vista della donna. La guerra non è “la pace del futuro”. È un prodotto culturale del maschio che pone l’accento sul verticalismo, l’aggressività, l’intolleranza.
Il femminile rimase dissolto nel sociale. In tutti gli sforzi rivoluzionari le donne si fecero carico dell’interesse pubblico più di quanto gli uomini si siano fatti carico di quelli domestici. Le donne si appropriarono con più entusiasmo dei propri doveri verso la società che dei propri diritti come esseri umani. Così, il terreno che fu meno interessato fu quello del privato. La lotta per la giustizia e per la dignità che gli uomini avevano guidato entrò a malapena nelle case, dove continuò a imporsi la violenza maschilista insieme all’abuso sessuale, che è pur sempre un abuso di potere. Mentre per le strade e sulle montagne gli uomini combattevano la dittatura, nelle case continuava ad imperare il loro potere dittatoriale.
Siamo in debito verso milioni di donne emarginate dal maschilismo dei nostri rivoluzionari. È questo il debito più pesante che portiamo nel nostro bagaglio, entrando nel nuovo millennio.
È un debito che può e deve essere saldato. Se nel secolo che si conclude l’opzione preferenziale per i poveri trasformò tante coscienze e ispirò tante lotte, in questo nuovo secolo dobbiamo fare un’altra opzione preferenziale: per le donne. Non perché siano migliori, ma perché sono donne e sono vissute subordinate. Il Dio in cui crediamo, che è Padre e Madre, non ama questa subordinazione.
Passano le epoche, cambiano i paradigmi, crollano i muri, ma la distanza che separa la destra dalla sinistra sarà sempre la sensibilità. Sembra giunta l’ora di risvegliare la sensibilità femminile tanto negli uomini come nelle donne. Servono donne e uomini femministi. Il femminismo non è né più né meno che un volto dell’umanesimo, volto nascosto, perché non sufficientemente esplorato.
Se nelle future rivoluzioni includeremo il punto di vista della donna, la sensibilità che le è propria, continueremo a spingere la storia verso la libertà, scopriremo alternative e la società che costruiremo sarà più giusta e più felice.
Maria Lopez Vigil
Nel numero successivo della nostra rivista Theo Klomberg riprende questo intervento di Maria Lopez Vigil rileggendo la rivoluzione nicaraguense come “dono” (qui).